sabato 7 ottobre 2023

Venga il tuo Regno

Come ci si deve confrontare con il potere?

Bisogna assumerlo? Rovesciarlo? Tentare di riformarlo?

Samuele dice a Israele: perché volete un Re se avete già Adonai? 

Gesù dice ai suoi di non usare le armi, come gli zeloti, contro i soldati dell'impero, e poi davanti a Pilato: "Il mio Regno non è di questo mondo". 

Paolo di Tarso ci dice di stare "nel mondo" sapendo di non essere "del mondo".

Bisogna riuscire a mettersi "in gioco", contro il potere che opprime i deboli, senza stare "al gioco" del potere.

È ciò che Francesco d'Assisi ha tentato di fare con la rinuncia ad ogni proprietà. La sua altissima povertà collocava lui e i suoi fratelli al di là della legge, dove c'è solo gratuità e amore.

Qualsiasi progetto di presa del potere è destinato al fallimento. Chi prende il potere ne viene catturato, come chi cerca di possedere l'anello di Sauron.

Per questo Gesù ci insegna a pregare dicendo non "instauriamo il tuo Regno" bensì "venga il tuo Regno".

Pregare incessantemente è l'unica arma per sconfiggere il potere.

 

L'Anello di Sauron



domenica 24 settembre 2023

È così

Un’amica mi ha raccontato del suo viaggio in India. Le condizioni di vita in quel paese sono per noi impensabili e raccontarle non potrà mai rendere che in minima parte ciò che prova chi le vede con i propri occhi, le sente con il proprio naso, le tocca con le proprie mani. Una cosa però mi ha detto che mi ha colpito molto, perché appartiene all’interiorità più profonda. Quando in diverse occasioni chiedeva alle persone del posto, come mai succedeva quello che succedeva, la risposta era spesso la medesima, apodittica e lapidaria: “è così”.

Questo aneddoto, senza un apparente collegamento, mi ha fatto venire in mente il seguente brano di Borges: “Il carro tardivo sta lì, distanziato perpetuamente, ma quello stesso ritardo diventa la sua vittoria, come se l’aliena velocità fosse spaurita premura di schiavo, e il proprio indugio, possesso completo del tempo, quasi di eternità. Quel possesso del tempo è l’infinito capitale criollo, l’Unico. Possiamo esaltare l’indugio ad immobilità: possesso dello spazio”.

Allora mi sono ricordato di un giorno in cui ero a Roma con un collega e stavamo aspettando, davanti al Palazzo della Farnesina, un tale che doveva introdurci per un incontro di lavoro, ma era in ritardo. Aspettammo sotto il sole più di un’ora. Sono cresciuto a Roma fino all'età di tredici anni, e il mio collega è napoletano e ha vissuto a Roma per qualche decennio, perciò la cosa non ci stupì minimamente, né ci innervosì. Nel mentre però riflettei sul diverso modo di concepire il tempo a Roma rispetto a Milano e lo attribuii istintivamente al rapporto con il passato. Chi vive a Milano spesso ha lasciato dietro di sé, se non l'hanno fatto i genitori o i nonni, una terra natia con la sua storia. E chi non ha storia vive proiettato nel futuro, come accade negli USA. Mentre in una città in cui ogni pietra trasuda di storia millenaria, tutto è già successo, più volte, e può solo ripetersi. Per cui il futuro non ha nulla di nuovo con cui sorprenderci, e non viene alcuna voglia di corrergli incontro.

Ad un tratto tutto mi è divenuto chiaro. Ecco, quel modo di pensare il tempo che Borges ha mirabilmente descritto e che a Roma si respira in ogni piazza, credo sia lo stesso fatalismo atavico che fa dire agli indiani “è così”.

È come se un’intera città, o un’intera civiltà, sappia di aver vissuto già migliaia di vite, nelle quali tutto si è consumato, tutte le possibilità di gioia e di dolore, tutte le vittorie e le sconfitte, tutti gli archetipi del cuore umano sono stati rappresentati sul palcoscenico della vita, più e più volte. Alla fine, come nel racconto “l’immortale” di Borges, la sazietà si trasforma in atarassia, in olimpico distacco, per cui qualsiasi evento, qualsiasi condizione, appare eterna in quanto una delle tante figure che si alternano nell’eterno ritorno della giostra dell’universo.

Questa idea del tempo e dell’eternità, così laica in Borges, così anticristiana in Nietzsche, così esotica nell’India, così disincantata a Roma, mi sembra ineludibile quando cerco di capire cosa sia il tempo messianico, l’annuncio evangelico del Regno dei cieli e della vita eterna. Forse Agamben ne “Il tempo che resta” riesce a svelarlo, cimentandosi con la lettera ai Romani di Paolo di Tarso, arrivando ad affermare che “il tempo messianico si costituisce in figura stessa del tempo presente, di ogni presente”.

Mi ritrovo così a pensare, di tanto in tanto, che l’India sia di fatto un anticipo del futuro del resto del nostro pianeta: quando miliardi di persone saranno finalmente stanche di produrre e consumare compulsivamente, di inseguire fantasmi, ossessionate dal possesso, dal godimento e dalla soddisfazione dei bisogni. Sogno allora che prima alcuni, poi molti, poi tutti, rallentino, come quel tardivo carro criollo descritto da Borges, si prendano tempo come si fa nelle vie di Roma, fino a che alcuni si fermino del tutto, in contemplazione del sole o della luna, in ascolto del lento scorrere del tempo. 

Tutta l’umanità la smetterà a quel punto di progettare, ossessionata dal domani, inizierà a lasciarsi vivere come gli uccelli del cielo e come i gigli dei campi, gioendo di ogni piacere e di ogni dono quotidiano, ma accettando anche la povertà, la malattia e sorella morte senza più temerle, senza più cercare invano di sfuggirvi. Dicendo semplicemente: “è così”.

Mickey Rourke nel film Francesco (1989) di Liliana Cavani



giovedì 31 agosto 2023

Dormida

 La gente aveva fatto cerchio per vederlo ballare, come succede in quei tanghi che parlano di Laura, di María la basca, di donne così, come in quel famoso tango della bionda Mireya: «se formaba la rueda pa’ verla bailar».

 Allora l’inglese dice, vanitosamente — perché i cortes spettavano a lui, mentre la donna doveva indovinare l’intenzione e seguirlo nel movimento, ma senza che si notasse troppo —, dice: «Vayan abriendo cancha, señores, que la llevo dormida»

-- Jorges Luis Borges

Tra le forme stilistiche che mi fanno amare la scrittura di questo grande poeta, devo sicuramente annoverare anche il gusto per l’aneddotica. Il brano precedente, tratto dalle quattro conferenze da lui tenute nel 1965 e pubblicate postume (Il tango, Adelphi 2016), riassume in un brevissimo aneddoto l’essenza del tango amato da Borges, tutto eroico e per nulla patetico, espressione di pura sfacciataggine, felicità e coraggio.


Tommaso Scarano, curatore del volume, traduce in una nota per il lettore l’ultima frase: «Fate largo, signori, che me la porto via senza che neanche se ne accorga». E la sua traduzione è certamente la più opportuna, poiché molti lettori sono conoscitori e amanti di Borges, ma forse solo pochi praticano il tango, e in particolare quello detto milonguero, che si balla in un abbraccio stretto. 


Per quei pochi la traduzione migliore sarebbe questa: «Fate largo, signori, che me la porto via addormentata». Essi infatti sanno molto bene che se un uomo balla bene, la ballerina spesso chiude davvero gli occhi e si abbandona completamente in ascolto, sognante, proprio come se fosse addormentata.


Oggi nelle milonghe si vede spesso ballare un tango spettacolare fatto soprattutto per essere ammirati da chi lo guarda dal di fuori, dagli spettatori. Ma la spettacolarità dei passi rende assai difficile, se non impossibile, l’abbaraccio stretto del tango milonguero, con tutta quella relazione magica che ne consegue, per la coppia danzante.


All’uomo che balla milonguero interessa infatti più ciò che prova la ballerina, che quello che gli altri possono vedere da fuori. Se si osservano (e basta cercare un po’ su youtube) i vecchi maestri milongueri, si può notare con sorpresa che si muovono poco, fanno passi piccoli e semplici, mentre la ballerina disegna e adorna attorno a loro. Semplicemente non ballano tanto con i propri piedi, ma soprattutto con quelli di lei. E ciò che è meno spettacolare non è tuttavia meno difficile.


Se torniamo ora all’aneddoto di Borges, tenendo ben presente quanto detto, si può apprezzare forse ancor meglio la sottile sfacciataggine racchiusa nella frase che pronuncia il compadrito. E può anche sorprendere che l'essenza dello stile milonguero sia già presente, anche in quell’epoca così lontana, proprio alle origini del tango.


Questa curiosità potrebbe essere illuminata anche da un altro dettaglio sottile, nascosto tra le righe di questo aneddoto. Borges ci racconta qui, è vero, di un mondo maschile che ostenta coraggio, eroismo e violenza, che combatte felice come se andasse a una festa, che non ha nulla di quel registro patetico, languido e sentimentale, che si trova invece nelle parole cantate nei tanghi famosi degli anni seguenti. 


Però ci fa scoprire anche, con una delle sue magistrali pennellate, che quell’uomo così eroico e sfacciato era al contempo capace di un abbraccio dolce e sensuale, che incantava la sua compagna e la faceva sognare. Era cioè quel tipo d’uomo antico, i cui sentimenti più profondi e romantici non vengono ostentati a parole, ma offerti solo con pudore e discrezione, nella stretta intimità di un abbraccio.


 

giovedì 24 agosto 2023

Vite immaginarie

Tutti noi viviamo una vita plurima,
e questo ci è indispensabile
per continuare a vivere:
viviamo la nostra umile vita,
ma ne viviamo anche un’altra,
immaginaria.

Jorge Luis Borges, 1965


Borges si riferisce qui al compadrito, che “si vedeva un po’ come un gaucho”. Qualcuno potrebbe pensare che tale vita immaginaria sia una forma di compensazione della propria misera condizione. Invece credo che il poeta qui ci faccia notare di sfuggita qualcosa che appartiene a tutti, ma proprio tutti: anche a Giulio Cesare mentre scrive il De Bello Gallico; anche a Gesù di Nazareth mentre annuncia il Regno dei Cieli.

Un altro errore potrebbe essere quello di considerare la vita immaginaria come inautentica. Credo sia un errore per il semplice fatto che non esiste una vita non immaginaria. E se anche volessimo teorizzarne l'esistenza, non potremmo immaginarla, né descriverla e parlarne, senza che, facendo ciò, anch'essa diventasse una vita immaginaria.

Viviamo sempre in una narrazione che plasma e dà un senso alla nostra vita, una narrazione fatta di parole, prodotto della nostra immaginazione. La libertà si gioca tutta in questa possibilità di immaginare la nostra vita, di costruire un senso componendo in un mosaico le tessere degli eventi che ci accadono.


 


sabato 12 agosto 2023

Libertà e tradizione

Non pensate che io sia venuto
per abolire la legge o i profeti;
io sono venuto non per abolire
ma per portare a compimento.
Matteo 5,17



La tensione tra libertà e tradizione non è riconducibile alla sterile polemica tra antichi e moderni. La libertà è un movimento iscritto nel solco della tradizione, ne è la linfa vitale che continuamente la attualizza.

Così la tradizione è tradizione di una libertà originaria che viene tramandata dalle generazioni per poter restare viva, per rinascere ogni volta venendo reinterpretata, per continuare a esistere.

Chi non comprende ciò, difende la tradizione come un idolo, un dogma o un simulacro, soffocando la libertà. In buona compagnia di chi, per le stesse ragioni la disprezza.

In entrambi i casi sotto la maschera si intravede lo stesso identico odio per la libertà, la paura di essere liberi, il bisogno irrefrenabile dello spirito gregario che vuole essere altro da sé perché non sa accettarsi e amarsi, che vuole fuggire da sé e dimenticarsi di sé.

Castel di Tusa, 22 agosto 2020


Cristo davanti a Caifa, Giotto 1305
Cristo davanti a Caifa, Giotto 1305

domenica 16 luglio 2023

Pietre

 «Vedi queste grandi costruzioni?
Non rimarrà qui pietra su pietra,
che non sia distrutta»
Mc13;2

Ci sono momenti e luoghi in cui il Vangelo risuona particolarmente attuale, come se parlasse a noi, qui ed ora.

Ci troviamo ai margini di un impero che drena risorse verso il suo centro, che cerca di omologare il mondo imponendo uno stile di vita pagano, orientato a godere solo dei piaceri della vita, senza prospettive ultraterrene. 

La nostra chiesa cristiana si trova costretta a vivere all'interno di una cultura che svilisce così ogni suo simbolo, ogni suo valore, ogni suo riferimento celeste, una cultura di fatto profanatrice. 

Al punto che, a titolo di esempio, non si fa alcuno scrupolo nel trasformare i nostri luoghi di culto in eleganti ristoranti dove la cucina prende il posto dell'altare.

The Jane, Antwerp, Belgium
Il Vangelo era a quel tempo follia per gli ateniesi e lo è di nuovo oggi per le élite di Washington come di Bruxelles.

Ma a noi il Vangelo deve suonare attuale e profetico, come lo erano per Gesù i testi di Isaia.

Se del Tempio non rimarrà pietra su pietra, come potremo continuare a praticare il nostro culto e professare la nostra fede?

Gesù dice che dopo tre giorni il suo tempio verrà ricostruito, che la sua chiesa è fatta di pietre vive, quali  siamo noi, e dice a Simone che da quel momento lui si chiamerà Pietro perché la sua chiesa si fonda sulla pietra che lui incarna.

Il Vangelo ci dice oggi che se vogliamo trovare un modo di sopravvivere come chiesa, in questa epoca, dobbiamo rifondarci a partire dalle persone, nelle nostre comunità, che vivono il Vangelo nella quotidianità.

Quelle pietre vive che lo annunciano con il loro esempio, facendo gli operatori pastorali, spendendo una parte significativa del proprio tempo in una forma di vita che può dirsi autenticamente missionaria.

Coloro cioè che offrono il proprio corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come vero culto spirituale (Rm 12;1).

Le nostre chiese dovranno imparare a riconoscere queste persone, non solo al loro interno, per valorizzarle e trovare tramite esse una via di speranza e di salvezza. 

Di quelle chiese che non sapranno farlo, non rimarrà pietra su pietra.

Notre Dame, 2019

lunedì 8 maggio 2023

Milonga "Cafè Dominguez"

Al numero 14 di via Rovigo, una viuzza parallela al naviglio, si trova la Bocciofila Martesana. La strada in quel punto fa una curva a gomito con un anonimo cancello sul lato esterno. La domenica dopo le sei di sera si vedono entrarvi persone che han visto molte primavere, con passo tranquillo e misurato, come di chi va a messa.

Il campo di boccie coperto si trasforma la domenica sera in una pista da ballo, circondata di tavoli per chi cena e di sedie per chi viene solo per il tango. Fin quasi a mezzanotte si possono ammirare coppie danzanti avvolte da melodie di un tempo perduto.

Molte donne indossano vestiti della foggia più diversa, che mai oserebbero esporre in altre occasioni che questa: superbamente eleganti, oppure osé per gli spacchi laterali che lasciano spuntare splendide gambe. Alcune sono più discrete nell'abito, ma non nelle scarpe.

Tutte volteggiano con grazia voluttuosa e quando il ballerino si ferma per una breve pausa di sospensione musicale, le gambe disegnano adorni sulla pista come pennelli su una tela. Nessuna coppia fa gli stessi passi. Ognuno ha uno stile diverso quanto il vestito indossato.

All'inizio di ogni tanda gli uomini invitano a ballare le donne mischiandosi spesso e volentieri con chi non si conosce, per il piacere di scoprire la novità di un diverso incedere, la dolcezza di un abbraccio, la poesia di un corpo che si dona per il tempo di qualche canzone.

Si respira una libertà sconfinata, l'essere gioioso di una forma-di-vita che si va perdendo, che è già irrimediabilmente perduta, e che proprio per questo sfugge insolente ad ogni dispositivo di potere.

 
 

lunedì 24 aprile 2023

Radici in cielo

 “La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere…”.

-- Leopold Sedar Senghor, il vate della negritudine

“In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra che non sarà caduta a terra”

-- Gesù di Nazareth, il figlio dell’uomo


Oggi viviamo in un mondo in cui la retorica diffusa dalle élite dominanti predica un individualismo  cosmopolita, che in realtà ha una natura  apolide. Infatti, i soggetti sono più deboli e facilmente dominabili quando sono isolati dalla comunità e dall'appartenenza a un contesto. Diventa più facile estrarre valore in ogni istante della loro vita, sia durante il lavoro, sia nel loro tempo libero.

Per questo motivo è importante radicarsi in una comunità per potersi difendere da un potere espropriante e alienante. Ma in un mondo sempre più liquido, digitale e deterritorializzato, il legame con la terra è ancora un’opzione disponibile su cui fondare tali comunità? Oppure lo sradicamento è una condizione ormai ineludibile?

Secondo Heidegger gli ebrei erano un popolo “metafisico” in quanto sradicato, ma non so cosa questa espressione voglia dire precisamente. Secondo alcuni interpreti egli sognò di veder rinascere in Germania il pensiero pre-metafisico dell’antica Grecia. Forse era vittima della stessa fascinazione per i pre-socratici che aveva colpito Nietzsche. Però l’aggettivo “metafisico” potrebbe essere qui inteso semplicemente come “distaccato dalla terra”: sradicato, appunto.

Che sia un’idea di Heidegger o meno, poco importa: questa interpretazione dello sradicamento "metafisico" degli ebrei non riesce a convincermi. In primo luogo perché credo che il popolo più metafisico sia stato quello della Grecia classica, che la metafisica l’ha inventata. E poi penso ai filosofi che nel medioevo l’hanno riscoperta e hanno dato inizio a quel movimento del pensiero che, proprio a causa della metafisica, è sfociato nella modernità e ancora oggi sconvolge i nostri tempi.

L’equivoco che confonde metafisica e sradicamento nasce forse dal fatto che il pensiero moderno, come quello metafisico dei greci antichi, dà a molti un certo disagio, mettendo tutto in discussione, fa come mancare la terra sotto i piedi, dà un senso di instabilità, una sorta di mal di mare. E quindi fa sentire il bisogno di stare ben radicati a terra. Soprattutto se non si è bravi marinai come lo erano i greci. Applicando un approccio ermeneutico “fisiologico”, come usava fare spesso Nietzsche, la filosofia tedesca, a partire da Kant fino a Heidegger, si potrebbe rileggere come un tentativo malriuscito di curarsi dal mal di mare che affligge il pensiero della civiltà occidentale.

La contrapposizione di Terra e Mare di cui parla Schmitt può essere ancor meglio riletta come un riaffiorare della contrapposizione tra Parmenide ed Eraclito. Per cui vediamo ripresentarsi nei filosofi e negli statisti della modernità l’ansia di stabilire qualcosa di definitivo. I tentativi di realizzare un regno idealmente perfetto su questa terra, come erano stati fatti nell’antichità, si pensi solo a Platone, si riaffacciano così anche nella Storia più recente. Il sistema del filosofo e l’organizzazione del politico inseguono così come un miraggio quel sogno di stabilità e perfezione che possa salvare il pensiero e la polis dal non essere, dal naufragio e dall’oblio.

Trovo assai curioso ad esempio che l’impero marittimo degli Stati Uniti raffiguri sé stesso come “la città sulla collina”, usando l’espressione coniata dal nobile inglese puritano John Winthrop e citata dai presidenti Kennedy e Reagan. Winthrop, salpato nella primavera del 1630 a bordo della nave Arbella, scrisse durante il lungo viaggio un sermone dal titolo “Un modello di carità cristiana”. Con quel sermone volle indicare i tratti distintivi della comunità puritana da fondarsi a ovest dell’Oceano Atlantico.

Mi immagino Winthrop mentre combatte il mal di mare rileggendo il sermone della montagna “Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta…” (Matteo 5:14). E il giorno dopo, passata la burrasca, lo vedo intento a scrivere “For wee must consider that wee shall be as a citty upon a hill. The eies of all people are uppon us”. Non è forse il puritanesimo un sintomo anch’esso di quell’ansia di stabilità che massimamente affligge ancora noi post-moderni, in preda ai flutti di un mondo che si muove sempre più vorticosamente fino a darci la nausea?

La metafisica è dunque di certo una causa dello sradicamento, ma non l'unica. Cioè non si può dire che chi è sradicato sia perciò necessariamente un metafisico. C’è infatti un grande insegnamento nella tradizione ebraica e nelle parole di Gesù, che si riassume nell’escatologia dove il regno dei cieli e la terra promessa non sono nella Storia ma alla fine di essa, al suo compimento. Tale prospettiva potrebbe aver contribuito a sviluppare una forma di sradicamento che ha poco o nulla a che vedere con la metafisica.

Va allora riconosciuto all’ebraismo di aver mostrato, con la rinuncia alla ricostruzione del tempio (almeno fino ad ora), la possibilità di essere fedeli ad una promessa senza l'ansia di vederla attuata, senza cioè tradirla con il vano tentativo di compierla nel presente, di anticiparla forzatamente, come invece i metafisici antichi, moderni e post-moderni hanno a lungo cercato di fare. E questa possibilità si è articolata per secoli nella diaspora di una pluralità di comunità che pur differenziandosi in vario modo, restano unite, tra loro e al loro interno, nella fedeltà a quella promessa, come da un rizoma le cui radici sono in cielo anziché in terra.

La metafisica proietta la stabilità perduta nell'iperuranio dell'essere, per preservarla dal non-essere, struggendosi poi nel tentativo inattuabile di riportarla in terra e fermare il divenire. L'escatologia per contro fa irrompere l'Eterno nella Storia, stipulando con esso un'Alleanza, dalla quale nascono una promessa e una speranza rivolte al futuro, capaci di indirizzare il divenire. Chi cerca di rimettere radici lotta con gli altri per possedere la terra. Chi aspetta il Messia lotta con sé stesso e si prende cura degli altri, per entrare tutti insieme nel regno dei cieli.

Eugène Delacroix “Cristo sul Lago di Gennesaret, c. 1853


domenica 9 aprile 2023

Taiten

 “Io sono sempre più scandalizzato
dall’assenza di senso del sacro
nei miei contemporanei”
Pier Paolo Pasolini

Chi è interessato al dialogo ecumenico della Chiesa Cattolica con il Buddhismo, potrebbe un giorno interrogarsi sul senso di un’esperienza che è presente in Italia ormai da più di trent'anni. Si tratta del monastero Zen di Fudenji, una testimonianza straordinaria per la trasmissione del senso del sacro alle generazioni future.

Il monastero di Fudenji è un’opera di alto valore simbolico, che ci invita a guardare forme per noi occidentali esotiche, ma di cui possiamo riconoscere le profondità liturgiche, artistiche e spirituali. Questa esperienza rieduca il nostro sguardo a vedere con occhi nuovi anche le nostre forme antiche della liturgia e dell’arte, dense di senso e di simboli, ma divenute per la maggioranza di noi scontate e quindi come invisibili. Uno sguardo nuovamente capace di provare meraviglia di fronte ai simboli della trascendenza, commosso da un’esperienza estetica, risvegliato al senso del sacro, è indispensabile per recuperare qualcosa in larga misura smarrito nella nostra fede cristiana.

Può essere utile allora a tale scopo rileggere la profezia di Joseph Ratzinger che il maestro Fausto “Taiten” Guareschi, allora Abate di Fudenji, lesse nella chiesa di San Martino in Greco a Milano, la sera del 23 marzo 2018, in prossimità della Pasqua.

“Ripartirà da piccoli gruppi, - dice Joseph Ratzinger [nel 1969] - da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino. [...] Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto. A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte.”

E dopo questa citazione, il maestro Taiten disse: “Bene, sono parole che mi danno una solitudine profonda anche perché sapete, a tutti gli effetti io sono cristiano cattolico, e non trovo niente di discordante nell’aver cercato, forse in un piccolo gruppo, una piccola comunità, come sembra indicare Joseph Ratzinger, il reinizio della chiesa. Al di là che io possa essere buddhista o meno, ciò che importa è la ripartenza.”

Allora chi si occuperà del dialogo ecumenico con il Buddhismo, un giorno potrebbe forse scoprire un volto sorprendentemente cristiano nel cuore di un uomo che ha saputo farsi “straniero”, a partire da  una grande lontananza, per poter essere profeta in patria.