domenica 24 settembre 2023

È così

Un’amica mi ha raccontato del suo viaggio in India. Le condizioni di vita in quel paese sono per noi impensabili e raccontarle non potrà mai rendere che in minima parte ciò che prova chi le vede con i propri occhi, le sente con il proprio naso, le tocca con le proprie mani. Una cosa però mi ha detto che mi ha colpito molto, perché appartiene all’interiorità più profonda. Quando in diverse occasioni chiedeva alle persone del posto, come mai succedeva quello che succedeva, la risposta era spesso la medesima, apodittica e lapidaria: “è così”.

Questo aneddoto, senza un apparente collegamento, mi ha fatto venire in mente il seguente brano di Borges: “Il carro tardivo sta lì, distanziato perpetuamente, ma quello stesso ritardo diventa la sua vittoria, come se l’aliena velocità fosse spaurita premura di schiavo, e il proprio indugio, possesso completo del tempo, quasi di eternità. Quel possesso del tempo è l’infinito capitale criollo, l’Unico. Possiamo esaltare l’indugio ad immobilità: possesso dello spazio”.

Allora mi sono ricordato di un giorno in cui ero a Roma con un collega e stavamo aspettando, davanti al Palazzo della Farnesina, un tale che doveva introdurci per un incontro di lavoro, ma era in ritardo. Aspettammo sotto il sole più di un’ora. Sono cresciuto a Roma fino all'età di tredici anni, e il mio collega è napoletano e ha vissuto a Roma per qualche decennio, perciò la cosa non ci stupì minimamente, né ci innervosì. Nel mentre però riflettei sul diverso modo di concepire il tempo a Roma rispetto a Milano e lo attribuii istintivamente al rapporto con il passato. Chi vive a Milano spesso ha lasciato dietro di sé, se non l'hanno fatto i genitori o i nonni, una terra natia con la sua storia. E chi non ha storia vive proiettato nel futuro, come accade negli USA. Mentre in una città in cui ogni pietra trasuda di storia millenaria, tutto è già successo, più volte, e può solo ripetersi. Per cui il futuro non ha nulla di nuovo con cui sorprenderci, e non viene alcuna voglia di corrergli incontro.

Ad un tratto tutto mi è divenuto chiaro. Ecco, quel modo di pensare il tempo che Borges ha mirabilmente descritto e che a Roma si respira in ogni piazza, credo sia lo stesso fatalismo atavico che fa dire agli indiani “è così”.

È come se un’intera città, o un’intera civiltà, sappia di aver vissuto già migliaia di vite, nelle quali tutto si è consumato, tutte le possibilità di gioia e di dolore, tutte le vittorie e le sconfitte, tutti gli archetipi del cuore umano sono stati rappresentati sul palcoscenico della vita, più e più volte. Alla fine, come nel racconto “l’immortale” di Borges, la sazietà si trasforma in atarassia, in olimpico distacco, per cui qualsiasi evento, qualsiasi condizione, appare eterna in quanto una delle tante figure che si alternano nell’eterno ritorno della giostra dell’universo.

Questa idea del tempo e dell’eternità, così laica in Borges, così anticristiana in Nietzsche, così esotica nell’India, così disincantata a Roma, mi sembra ineludibile quando cerco di capire cosa sia il tempo messianico, l’annuncio evangelico del Regno dei cieli e della vita eterna. Forse Agamben ne “Il tempo che resta” riesce a svelarlo, cimentandosi con la lettera ai Romani di Paolo di Tarso, arrivando ad affermare che “il tempo messianico si costituisce in figura stessa del tempo presente, di ogni presente”.

Mi ritrovo così a pensare, di tanto in tanto, che l’India sia di fatto un anticipo del futuro del resto del nostro pianeta: quando miliardi di persone saranno finalmente stanche di produrre e consumare compulsivamente, di inseguire fantasmi, ossessionate dal possesso, dal godimento e dalla soddisfazione dei bisogni. Sogno allora che prima alcuni, poi molti, poi tutti, rallentino, come quel tardivo carro criollo descritto da Borges, si prendano tempo come si fa nelle vie di Roma, fino a che alcuni si fermino del tutto, in contemplazione del sole o della luna, in ascolto del lento scorrere del tempo. 

Tutta l’umanità la smetterà a quel punto di progettare, ossessionata dal domani, inizierà a lasciarsi vivere come gli uccelli del cielo e come i gigli dei campi, gioendo di ogni piacere e di ogni dono quotidiano, ma accettando anche la povertà, la malattia e sorella morte senza più temerle, senza più cercare invano di sfuggirvi. Dicendo semplicemente: “è così”.

Mickey Rourke nel film Francesco (1989) di Liliana Cavani