sabato 8 dicembre 2018

Per mezzo dei Profeti

Spesso la fede di molti appartenenti al cattolicesimo si concentra sulla persona di Gesù, e in particolare sulla immagine del crocifisso, fin quasi a trascurare persino la sua resurrezione.

Il credo è fatto di tre parti di cui solo la seconda è centrata sul Cristo. La prima ci parla del Dio di Abramo e di Mosè che è descritto nel pentateuco, la Torah.

Nella terza parte il credente professa la sua fede nello Spirito Santo che dà la vita e ha parlato per mezzo dei Profeti.

Chi sono i Profeti? Il primo di essi non è forse Mosè, cui secondo la tradizione dobbiamo appunto la Torah?

Può dunque un cattolico permettersi di ignorare o sottovalutare il contenuto del pentateuco e di quel che nella Bibbia precede i Vangeli? Eppure per secoli abbiamo letto solo il finale del romanzo.

Mi viene da domandarmi spesso anche un’altra cosa. Lo Spirito parla ancora o è diventato muto? E se parla ancora, allora, perché diciamo “ha parlato”, al passato? Che poi è un passato prossimo, non remoto. E infatti quelli che noi chiamiamo Santi, non sono forse anche loro dei Profeti?

Non è forse lo Spirito che parla attraverso di loro? Non è che siamo sempre in ritardo, noi contemporanei, anche noi duri d’orecchi, a riconoscere la voce dello Spirito che ci parla per bocca di qualcuno, adesso?

Ha parlato. Come si direbbe di un autobus che abbiamo appena perso: è passato. Come se non passasse ancora a momenti. Anzi: se lo ascoltassimo ci parlerebbe in ogni istante, con un mormorio di vento leggero (1Re 19,12). Quanto siamo ciechi e sordi. Ascolta, Israele!



martedì 20 novembre 2018

Un'idea di libertà

“Le tavole erano opera di Dio e la scrittura di Dio 
era libertà sulle tavole.” 
Esodo 32:16

“È libero solo colui che si dedica allo studio dell’Insegnamento” 
Avot 6:2

Non ricordo con precisione come sia successo, né la data precisa, ma una decina di anni fa è affiorata in me la domanda seguente: “perché gli ebrei sono stati perseguitati ripetutamente, per più di tremila anni”?

Può sembrare mossa dalla curiosità, o forse da un interesse culturale, ma in ogni caso rimane un problema che ha riguardato una moltitudine di persone lungo la Storia. In effetti io stesso pur avvertendo l’urgenza di trovare una risposta, procedevo senza capire perché la stessi cercando. L’ho capito solo quando, trovata la risposta, ho scavato più a fondo in me stesso.

Ho dovuto innanzitutto iniziare a guardare la Bibbia in modo anticonvenzionale: come la più antica e duratura “istanza critica contro ogni cultura dominante”, come la definisce Silvano Fausti, nel suo libro intitolato “Per una lettura laica della Bibbia”.

Poi ho dovuto capire chi erano effettivamente quegli Ebrei che hanno dato vita al monoteismo in occidente. Qui mi è venuto in soccorso Moni Ovadia, con il suo spettacolo Kavanah, in cui declamava citando a braccio dal libro “Storia degli ebrei” di Chaim Potok: “Erano una massa terrorizzata e piagnucolosa di asiatici sbandati. Ed erano: Israeliti discendenti di Giacobbe, Accadi, Ittiti, transfughi Egizi e molti habiru, parola di derivazione accadica che indica i briganti vagabondi a vario titolo: ribelli, sovversivi, ladri, ruffiani, contrabbandieri. Ma soprattutto gli ebrei erano schiavi e stranieri, la schiuma della terra”.

Poco oltre il passo citato da Ovadia, Potok scrive anche che “il riconoscimento biblico dello schiavo come un individuo che ha dei diritti, sebbene gli manchi lo stato di uomo libero, non ha paralleli nelle leggi mesopotamiche”. Insomma avere dei diritti per il solo fatto di essere umani era un’idea sovversiva per quei tempi.

Ho passato poi un’intera estate a leggere il libro di Potok e a stupirmi di come la storia degli Ebrei sia intimamente legata alla storia dell’occidente, al punto che non conoscerla significa non capire veramente a fondo la nostra Storia.

E così mi sono soffermato a riflettere su due pilastri, profondamente innovativi per l’antichità: la libertà dall’oppressione, per tutti, e l’alfabetizzazione, funzionale a tale libertà (“scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” Deuteronomio 6:9). E un gruppo di individui che predica libertà e alfabetizzazione per tutti è un chiaro pericolo per ogni forma di potere. Si capisce dunque la persecuzione.

È stato solo in quel momento, trovata la risposta al quesito iniziale, che ho capito anche da dove veniva la domanda. Era sgorgata inconsapevolmente dal mio amore per la libertà individuale, dal mio cuore anarchico, che fin da adolescente sempre ha diffidato di ogni forma di organizzazione che preveda una “catena di comando”. E da quel momento ho iniziato anche a scoprire moltre altre cose e “vedere” ciò che spesso è sotto gli occhi di tutti, ma che quasi nessuno vede, a causa della propaganda che la cultura dominante esercita sistematicamente.

Il linguista Joel Hoffman sostiene, nel saggio “In the Beginning: A Short History of the Hebrew Language”, che l’invenzione delle “madri di lettura” fu determinante per rendere la scrittura accessibile a tutta la popolazione, non più privilegio esclusivo dei potenti e dei funzionari. Non a caso il tetragramma è composto solo da madri di lettura. E quando Dio cambia nome ad Abramo e Sara, lo fa inserendovi una madre di lettura, come cifra di una appartenenza. Tale invenzione linguistica portò poi alla introduzione esplicita delle vocali negli alfabeti derivati dall’antico ebraico (detto anche fenicio), quali sono il greco e il latino, favorendo la diffusione della scrittura e della lettura presso tutti i popoli.

Se nel mondo occidentale di oggi i diritti umani e il divieto di uccidere e rubare sono qualcosa di scontato, lo si deve in buona parte anche a chi, 3.200 anni fa, ebbe il coraggio di difendere tali diritti e doveri. Il decalogo è stato scritto in ebraico, con i caratteri ebraici antichi (non esistevano ancora quelli aramaici). Certo, erano gli stessi caratteri usati dai vicini fenici. Ma il fatto che a scuola ci insegnino che i nostri alfabeti occidentali derivino proprio dal fenicio, una lingua di cui non ci è giunta nessuna opera letteraria degna di nota, e negando di fatto una radice ebraica delle lingue scritte, è quantomeno imbarazzante.



Mi è bastato leggere alcune delle ricerche di Giovanni Semeraro per scoprire in seguito come anche il significato nascosto di migliaia di vocaboli occidentali risieda nel suono originario dell’Accadico, che spesso si ritrova rispecchiato fedelmente anche nell’Ebraico.

Ma queste cose possono forse apparire persino aride se confrontate con altre affascinanti scoperte che rivelano quanto l’occidente sia influenzato dalla cultura ebraica, almeno tanto quanto quella ellenistica. 

Tutti gli studenti di liceo hanno sentito parlare sui banchi di scuola del grande filosofo alessandrino Filone di Alessandria. Pochi sanno che era ebreo osservante. Né tantomeno che il fratello di Filone, Alessandro l’Alabarca, ricchissimo e potente amico di Roma, fece ricoprire con lastre d'oro ed argento massiccio nove porte del meraviglioso tempio di Gerusalemme. Il figlio di Alessandro, Tiberio Giulio Alessandro, abbandonò la religione del padre, divenne un politico e generale romano, appartenente all'ordine equestre dell'Impero. In occasione dell'assedio di Gerusalemme, ricopriva il ruolo di comandante in seconda di Tito e distrusse il tempio adorato dal padre. In due sole generazioni di una stessa famiglia possiamo vedere come la storia dell’ellenismo e dell’ebraismo siano state intrecciate quanto i fili di trama ed ordito.

Cicerone già nel 59 a.C. nell'orazione per Lucio Flacco descriveva con una certa preoccupazione la presenza di una fortissima comunità ebraica a Roma, che oggi può quindi vantare di essere certamente tra le più antiche della Storia. Non fu quindi su un terreno vergine, fatto di pagani ignari del monoteismo ebraico, che i seguaci della via di Gesù predicarono la buona novella del Messia risorto per la salvezza di tutti gli uomini, senza confini di appartenenza. I primi cristiani parlavano prima di tutto agli ebrei nelle sinagoghe e ai pagani già simpatizzanti e affascinati da un ebraismo che prometteva libertà e salvezza per tutti.

Proprio per questo la convivenza tra cristiani ed ebrei non fu semplice, ma nel tempo ha conosciuto anche momenti più felici, come è testimoniato ad esempio da un commovente sonetto di Gioacchino Belli del 9 maggio 1835 intitolato “La morte der Rabbino” che purtroppo le antologie scolastiche non si preoccupano minimamente di divulgare:

    È ito in paradiso oggi er Rabbino,
che ssaría com’er Vescovo der Ghetto;
e stasera a li Scòli j’hanno detto
l’uffizzio de li morti e ’r matutino.

     Era amico der Papa: anzi perzino
er giorn’istesso ch’er Papa fu eletto
pijjò la penna e jje stampò un zonetto 
scritto mezzo in ebbreo mezzo in latino.
              
     Dunque a la morte sua Nostro Siggnore
cià ppianto a ggocce, bbe’ cche ssia sovrano,
e cce s’è inteso portà vvia er core.
              
     Si ccampava un po’ ppiú, tte lo dich’io,
o nnoi vedemio er Rabbino cristiano,
o er Papa annava a tterminà ggiudio.

L’epurazione di ogni legame con l’ebraismo è così forte nella nostra cultura, che quando faccio notare che il nome del nostro più illustre scienziato, Galileo Galilei, è massimamente ebraico, quasi sempre vedo sguardi increduli e stupefatti. Tutti siamo ammaestrati a pensare subito a Pisa, la torre da cui egli misurava la caduta dei gravi, mai alla regione che diede i natali al Nazareno: la Galilea. Non so se egli fosse di origini ebraiche, non lo si può sapere, come per molti italiani, ma è certamente un fatto assai curioso che il suo nome neppure suoni alle nostre orecchie come toponimico!

Tutti conoscono Don Lorenzo Milani, ma pochi sanno che fosse ebreo. Paolo Levrero nel 2013 ha pubblicato un saggio intitolato “L’ebreo don Milani” che getta luce nuova sull’impegno sociale dell’ex parroco di Barbiana, basata non a caso sulla pedagogia e l’alfabetizzazione. E con Milani siamo tornati al punto iniziale del discorso: la difesa della libertà e della dignità di ogni singolo individuo, inteso in senso universale, senza distinzione o appartenenza identitaria.

Ma bisogna ancora ricordare un altro pedagogo famoso: Achille Ratti, che da giovane insegnava matematica al seminario minore. Dopo aver studiato l'ebraico al corso arcivescovile, approfondì gli studi con il rabbino capo di Milano Alessandro Da Fano, diventando poi docente di ebraico in seminario nel 1907 e mantenendo l'incarico per tre anni. Come docente portava i suoi allievi nella Sinagoga di Milano, affinché familiarizzassero con l'ebraico orale.

Fu forse anche per questo che, diventato Papa con il nome di Pio XI, il 6 settembre 1938, all’indomani del primo “Provvedimento per la difesa della razza” (con il quale scolari e docenti ebrei vennero esclusi dalle scuole pubbliche e dalle università), pronunciò un discorso di denuncia verso l’antisemitismo. Discorso sconosciuto ai più, anche perché l’intervento venne pubblicato sull’Osservatore Romano in versione ridotta. Insomma venne censurato: e pensare che lui era il Papa!

Oggi sento che noi occidentali dovremmo tutti fare nostre le parole conclusive del discorso di Achille Ratti, pubblicato integralmente nel libro di Emma Fattorini "Pio XI, Hitler e Mussolini": “Abramo è definito il nostro patriarca, il nostro avo. L'antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L'antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare. … Attraverso Cristo e in Cristo noi siamo i discendenti spirituali di Abramo. … Non è lecito per i cristiani prendere parte all'antisemitismo. … L'antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti.

Queste parole risuonano come un grido di lacerazione profonda del cuore. Poiché il senso dell’essere cristiano non può che essere nell’aderenza alla spiritualità ebraica di cui Rabbi Yeshua fu testimone fedele, nella tradizione di Abramo. Ma anche un Papa, in cima a una “catena di comando”, ne è vincolato tanto quanto chi si trova negli anelli più bassi. Per quanto fosse ispirato e profondamente cristiano, non poteva concedersi di essere più libero che in quel suo accorato discorso.



mercoledì 25 aprile 2018

Entropia e significato

Non è facile dare una definizione di casualità nemmeno per i matematici. Come esempio basti considerare che anche la successione di cifre decimali di pi greco passa tutti i test che misurano la distribuzione casuale delle cifre, per cui potrebbe apparire casuale, ma non lo è poiché esiste ovviamente un algoritmo per calcolarla.
Andrej Nikolaevič Kolmogorov

Secondo la teoria della complessità di Andrej Nikolaevič Kolmogorov si può sostenere che una sequenza è casuale quando non può essere “compressa”, cioè ricondotta in qualche modo a una sequenza più corta. Anche una definizione del genere presenta almeno un problema poiché la complessità di una sequenza non risulta in generale computabile (solo in alcuni casi).

Questo significa in parole povere che, come non si riesce a dimostrare in modo diretto che qualcosa è impossibile, così non possiamo mai sapere con certezza se esiste un modo di “comprimere” una sequenza che riteniamo essere casuale. Nel momento in cui qualcuno scoprisse il modo di comprimerla, tale sequenza cesserebbe di esserlo.

La questione ebbe origine con Claude Elwood Shannon padre della teoria matematica dell’informazione, che pensò di misurar quest'ultima come entropia negativa, ovvero l’opposto della casualità. In breve una sequenza di segni casuale è caratterizzata da un alto livello di entropia, mentre un messaggio contenente informazione presenta un basso livello di entropia.
Claude Elwood Shannon

Per mostrare concretamente questo approccio egli descrisse un semplice esperimento in cui si costruiscono delle sequenze di caratteri scelti in modo casuale dalle 26 lettere dell’alfabeto più lo spazio. le sequenze vengono costruite però con dei gradi crescenti di approssimazione alla lingua inglese.

Nella prima sequenza, di grado zero, ogni carattere ha uguale probabilità. Nella seconda sequenza, di grado uno, si utilizza la frequenza con cui un carattere segue il precedente nella lingua inglese. Nella sequenza di grado tre un carattere rispetta la frequenza con cui segue i due precedenti, mentre in quella di grado quattro dei tre precedenti.

Si può riprodurre l’esperimento aprendo a caso un libro (usato come campionatura casuale) e scorrendo fino a trovare la coppia o la terna dei caratteri precedenti, osservando quindi quello che li segue nel libro e aggiungendolo alla nostra sequenza.

Nella sequenza di grado cinque Shannon per semplificare applica lo stesso metodo alle parole invece che ai caratteri. Il risultato è il seguente.

Ordine zero di approssimazione per caratteri: XFOML RXKHRJFFJUJ ZLPWCFWKCYJ FFJEYVKCQSGHYD QPAAMKBZAACIBZLHJQD

Primo ordine di approssimazione per caratteri: OCR0 HLI RGWR NMIELWIS EU LL NBNESEBYA TH EEI ALHENH’ITPA OOBTTVA NAH BRL

Secondo ordine di approssimazione per caratteri: ON IE ANTSOUTINYS ARE T INCTORE ST BE S DEAMY ACHIN D ILONASIVE TUCOOWE AT TEASONARE FUSO TIZIN ANDY TOBE SEACE CTISBE

Terzo ordine di approssimazione per caratteri: IN NO IST LAT WHEY CRATICT FROURE BIRS GROCID PONDENOME OF DEMONSTURES OF THE REPTAGIN IS REGOACTIONA OF CRE

Primo ordine di approssimazione per parole: REPRESENTING AND SPEEDILY IS AN GOOD APT OR COME CAN DIFFERENT NATURAL HERE HE THE A IN CAME THE TO OF TO EXPERT GRAY COME TO FURNISHES THE LINE MESSAGE HAD BE THESE.

Secondo ordine di approssimazione per parole: THE HEAD AND IN FRONTAL ATTACK ON AN ENGLISH WRITER THAT THE CHARACTER OF THIS POINT IS THEREFORE ANOTHER METHOD FOR THE LETTERS THAT THE TIME OF WHO EVER TOLD THE PROBLEM FOR AN UNEXPECTED

Shannon fa notare come una sequenza di quattro o più parole successive estratte dall’ultimo risultato ottenuto potrebbe tranquillamente far parte di una frase senza alcuna stranezza.
The particular sequence of ten words “attack on an English writer that the character of this” is not at all unreasonable. It appears then that a sufficiently complex stochastic process will give a satisfactory representation of a discrete source.
Poco dopo aggiunge:
It would be interesting if further approximations could be constructed, but the labor involved becomes enormous at the next stage.
Oggi molti avranno notato che la tastiera di uno smartphone ci suggerisce le parole successive basandosi su una misura statistica di questo genere, per cui procedere a dei livelli di approssimazioni successivi sarebbe molto facile, grazie proprio ai progressi che anche queste idee di Shannon ci hanno fatto compiere in ambito tecnologico.

Ho sempre avuto questo dubbio: la misura dell’entropia (del disordine) forse coglie solo l’assenza di regole fonetiche, grammaticali e sintattiche, senza sfiorare l’aspetto più sottile del senso. E ancora: la poesia generata da un algoritmo è poesia?

La crittografia introduce in questo problema un ulteriore elemento di riflessione. Dato un messaggio, è possibile con un algoritmo crittografico trasformarlo in una sequenza di caratteri incomprensibile, e quindi apparentemente non distinguibile da una sequenza quasi casuale.

Certo, potrà essere una distribuzione non equiprobabile dei segni, ma sarà una situazione analoga a quella degli ordini di approssimazione esemplificati precedentemente. Quindi paradossalmente data una sequenza apparentemente casuale di segni, non possiamo escludere a priori che esistano un algoritmo e una chiave di decifratura che la trasformino in un messaggio di senso compiuto.

La conclusione che si può trarre è che un messaggio contenente informazione si differenzia da una sequenza casuale solo se esiste un destinatario in grado di estrarne un senso, cioè di decifrarlo. Messaggi in una lingua o codice che non conosco mi appaiono invece come rumore per mia incapacità. Questa posizione sembra oltretutto in linea con le idee di Bruno De Finetti che (diversamente da Kolmogorov) dava alla probabilità un significato soggettivo invece che oggettivo.

In definitiva con l’entropia dell’informazione sembra che possiamo solo misurare la nostra incapacità di leggere un ordine nelle cose. Ma questo non ci può mai garantire che un ordine, sebbene celato ai nostri occhi, esista.

Questa preziosa incertezza è ciò che rende affascinante il lavoro di interpretazione di qualunque testo: che si tratti del grande libro della natura, cui si accostò Galileo seguito da tutti gli scienziati, o della Bibbia su cui rabbini ed esegeti continuano a ragionare. Ogni interpretazione è ricerca e costruzione di un senso plausibile.

Tuttavia il senso di un testo appartiene ad un altro ordine di questioni. Bisogna rifarsi all’estetica Wabi-Sabi, alla mamma di Proust che passeggiando nel giardino spezzava un rametto per introdurre delle irregolarità intenzionali che lo rendessero “più naturale”.

Incalcolabile (frutto di un mio limite previsionale) o imponderabile (prodotto dalla libertà di Dio o dei viventi)?

domenica 18 marzo 2018

La morte de n'omo

“Ecché ssarrà, la morte de n’omo?”

Questo detto dialettale marchigiano si può tradurre come “E che (mai) sarà (quel che è successo), (grave forse quanto) la morte di un uomo?” Veniva usato dai miei nonni, accompagnato da un tono esclamativo e canzonatorio, per sdrammatizzare qualunque situazione difficile nella vita, in cui ci si trova sbaragliati, senza saper più che pesci prendere.

In fondo, a tutto c’è rimedio - recita un altro adagio famoso - fuorché alla morte. Dove è chiaramente sottinteso che si tratta della nostra morte, e di quella dei nostri cari, o al più dei nostri simili, non certo di quella di altri esseri viventi a noi indifferenti, o la cui morte è magari perfino necessaria per la nostra sopravvivenza, alimentando i nostri banchetti. E allora, in questa prospettiva, sottolineare che la morte è “de n’omo” può sembrare un dettaglio superfluo e impreciso.

Senonché la sottolineatura ci spinge a riflettere maggiormente - come in un midrash - sul senso che le parole evocano nel nostro animo. Perché dicendo “di un uomo” già si esclude la nostra, come anche quella di una persona cara o persino di una persona illustre. E poco a poco si intravede allora come la morte di un uomo qualsiasi passi di fatto inosservata nello scorrere della vita ed è presto cancellata dagli anni, senza lasciare tracce di rilievo nella Storia.

Per cui di cosa ti preoccupi, mio caro - dicevano con quel motto i miei nonni - se ciò che ti turba non vale nemmeno quanto la nostra vita di uomini, che a noi è tanto cara, ma che agli occhi del mondo è poco o nulla?

Senzatetto trovato morto a Milano, in via Vittor Pisani

domenica 14 gennaio 2018

Manicomio

Fu nel parco di un manicomio che incontrai un giovane con il volto pallido e bello, colmo di stupore. E sedetti accanto a lui sulla panca, e dissi: “Perché sei qui?”.
Edito da "SE - Studio Editoriale"
E lui mi rivolse uno sguardo attonito e disse:
“È una domanda poco opportuna, comunque risponderò.
Mio padre voleva fare di me una copia di se stesso, e così mio zio.
Mia madre vedeva in me l’immagine del suo illustre genitore.
Mia sorella mi esibiva il marito marinaio come il perfetto esempio da seguire.
Mio fratello riteneva che dovessi essere identico a lui: un bravissimo atleta.
Ed anche i miei insegnanti, il dottore in filosofia, e il maestro di musica, e il logico, erano ben decisi: ognuno di loro,voleva che io fossi il riflesso del loro volto in uno specchio. Per questo sono venuto qui. Trovo l’ambiente più sano.
Qui almeno posso essere me stesso.”
E di scatto si volse verso me e chiese: “Anche tu sei qui a causa dell’educazione e dei buoni consigli?”
Ed io risposi: “No, sono qui in visita”.
E lui disse: “Ah, ho capito. Vieni dal manicomio dall’altra parte del muro”.

Kahlil Gibran (Il Vagabondo, p. 65)


Di recente continua a tornarmi in mente questa citazione. Descrive perfettamente come mi apparve il mondo quando avevo 13 anni e mi vi affacciavo. Seppure a volte l'ho dimenticato per qualche tempo, sognando, dormendo come un sonnambulo, nella frenesia del vivere...

Perché mi accade a volte anche una sorta di risveglio. Ed è proprio da sveglio, solo così, quando il mondo mi appare a quel modo, che allora so con certezza che Dio esiste, perché lo sento. E non sapendolo spiegare o descrivere, mi ritrovo incompreso, come un matto, e capisco allora Paolo quando dice che la fede è scandalo per i giudei e follia per i gentili.

Quando pensiamo ai matti, e ai loro pensieri, tendiamo a infantilizzarli, per cui le idee di un disadattato ci paiono come la coperta di Linus: consolazioni. Ma la follia non è riducibile a semplice minorità, scarto inutile ai fini del sistema dominante di produzione e consumo.

Jung ci ha insegnato che la follia è una breccia che si apre nel muro quando si ha il coraggio di attraversare fino in fondo la logica e lucida disperazione. E questo squarcio vale allo stesso modo per ogni autentica esperienza spirituale.

Certo, tutto ciò è troppo eversivo per essere spendibile socialmente. Per questo è preferibile una immagine più innocua della spiritualità (come della psicoanalisi), quale cura, medicamento, consolazione.

Allora la breccia nel muro è un guasto cui serve un rimedio, è uno strappo nel cielo di carta, è un’anomalia da riparare o compatire. Soprattutto è da tappare, prima che qualcosa o qualcuno, un Altro, irrompa nel nostro mondo e ci venga a risvegliare, a liberare, a salvare…