lunedì 24 aprile 2023

Radici in cielo

 “La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere…”.

-- Leopold Sedar Senghor, il vate della negritudine

“In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra che non sarà caduta a terra”

-- Gesù di Nazareth, il figlio dell’uomo


Oggi viviamo in un mondo in cui la retorica diffusa dalle élite dominanti predica un individualismo  cosmopolita, che in realtà ha una natura  apolide. Infatti, i soggetti sono più deboli e facilmente dominabili quando sono isolati dalla comunità e dall'appartenenza a un contesto. Diventa più facile estrarre valore in ogni istante della loro vita, sia durante il lavoro, sia nel loro tempo libero.

Per questo motivo è importante radicarsi in una comunità per potersi difendere da un potere espropriante e alienante. Ma in un mondo sempre più liquido, digitale e deterritorializzato, il legame con la terra è ancora un’opzione disponibile su cui fondare tali comunità? Oppure lo sradicamento è una condizione ormai ineludibile?

Secondo Heidegger gli ebrei erano un popolo “metafisico” in quanto sradicato, ma non so cosa questa espressione voglia dire precisamente. Secondo alcuni interpreti egli sognò di veder rinascere in Germania il pensiero pre-metafisico dell’antica Grecia. Forse era vittima della stessa fascinazione per i pre-socratici che aveva colpito Nietzsche. Però l’aggettivo “metafisico” potrebbe essere qui inteso semplicemente come “distaccato dalla terra”: sradicato, appunto.

Che sia un’idea di Heidegger o meno, poco importa: questa interpretazione dello sradicamento "metafisico" degli ebrei non riesce a convincermi. In primo luogo perché credo che il popolo più metafisico sia stato quello della Grecia classica, che la metafisica l’ha inventata. E poi penso ai filosofi che nel medioevo l’hanno riscoperta e hanno dato inizio a quel movimento del pensiero che, proprio a causa della metafisica, è sfociato nella modernità e ancora oggi sconvolge i nostri tempi.

L’equivoco che confonde metafisica e sradicamento nasce forse dal fatto che il pensiero moderno, come quello metafisico dei greci antichi, dà a molti un certo disagio, mettendo tutto in discussione, fa come mancare la terra sotto i piedi, dà un senso di instabilità, una sorta di mal di mare. E quindi fa sentire il bisogno di stare ben radicati a terra. Soprattutto se non si è bravi marinai come lo erano i greci. Applicando un approccio ermeneutico “fisiologico”, come usava fare spesso Nietzsche, la filosofia tedesca, a partire da Kant fino a Heidegger, si potrebbe rileggere come un tentativo malriuscito di curarsi dal mal di mare che affligge il pensiero della civiltà occidentale.

La contrapposizione di Terra e Mare di cui parla Schmitt può essere ancor meglio riletta come un riaffiorare della contrapposizione tra Parmenide ed Eraclito. Per cui vediamo ripresentarsi nei filosofi e negli statisti della modernità l’ansia di stabilire qualcosa di definitivo. I tentativi di realizzare un regno idealmente perfetto su questa terra, come erano stati fatti nell’antichità, si pensi solo a Platone, si riaffacciano così anche nella Storia più recente. Il sistema del filosofo e l’organizzazione del politico inseguono così come un miraggio quel sogno di stabilità e perfezione che possa salvare il pensiero e la polis dal non essere, dal naufragio e dall’oblio.

Trovo assai curioso ad esempio che l’impero marittimo degli Stati Uniti raffiguri sé stesso come “la città sulla collina”, usando l’espressione coniata dal nobile inglese puritano John Winthrop e citata dai presidenti Kennedy e Reagan. Winthrop, salpato nella primavera del 1630 a bordo della nave Arbella, scrisse durante il lungo viaggio un sermone dal titolo “Un modello di carità cristiana”. Con quel sermone volle indicare i tratti distintivi della comunità puritana da fondarsi a ovest dell’Oceano Atlantico.

Mi immagino Winthrop mentre combatte il mal di mare rileggendo il sermone della montagna “Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta…” (Matteo 5:14). E il giorno dopo, passata la burrasca, lo vedo intento a scrivere “For wee must consider that wee shall be as a citty upon a hill. The eies of all people are uppon us”. Non è forse il puritanesimo un sintomo anch’esso di quell’ansia di stabilità che massimamente affligge ancora noi post-moderni, in preda ai flutti di un mondo che si muove sempre più vorticosamente fino a darci la nausea?

La metafisica è dunque di certo una causa dello sradicamento, ma non l'unica. Cioè non si può dire che chi è sradicato sia perciò necessariamente un metafisico. C’è infatti un grande insegnamento nella tradizione ebraica e nelle parole di Gesù, che si riassume nell’escatologia dove il regno dei cieli e la terra promessa non sono nella Storia ma alla fine di essa, al suo compimento. Tale prospettiva potrebbe aver contribuito a sviluppare una forma di sradicamento che ha poco o nulla a che vedere con la metafisica.

Va allora riconosciuto all’ebraismo di aver mostrato, con la rinuncia alla ricostruzione del tempio (almeno fino ad ora), la possibilità di essere fedeli ad una promessa senza l'ansia di vederla attuata, senza cioè tradirla con il vano tentativo di compierla nel presente, di anticiparla forzatamente, come invece i metafisici antichi, moderni e post-moderni hanno a lungo cercato di fare. E questa possibilità si è articolata per secoli nella diaspora di una pluralità di comunità che pur differenziandosi in vario modo, restano unite, tra loro e al loro interno, nella fedeltà a quella promessa, come da un rizoma le cui radici sono in cielo anziché in terra.

La metafisica proietta la stabilità perduta nell'iperuranio dell'essere, per preservarla dal non-essere, struggendosi poi nel tentativo inattuabile di riportarla in terra e fermare il divenire. L'escatologia per contro fa irrompere l'Eterno nella Storia, stipulando con esso un'Alleanza, dalla quale nascono una promessa e una speranza rivolte al futuro, capaci di indirizzare il divenire. Chi cerca di rimettere radici lotta con gli altri per possedere la terra. Chi aspetta il Messia lotta con sé stesso e si prende cura degli altri, per entrare tutti insieme nel regno dei cieli.

Eugène Delacroix “Cristo sul Lago di Gennesaret, c. 1853


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