giovedì 14 novembre 2013

La Preghiera del Signore

Il testo seguente è la traduzione integrale di una voce della Jewish Enciclopedia (un’opera del 1906 i cui articoli sono ancora ritenuti di grande valore) reperibile in originale al seguente URL:
http://www.jewishencyclopedia.com/articles/10112-lord-s-prayer-the

La Preghiera del Signore


Nome dato dal mondo cristiano alla preghiera che Gesù insegnò ai suoi discepoli (Matteo 6;9-13, Luca 11;1-4). Secondo Luca l’insegnamento di tale preghiera fu suggerito da uno dei discepoli di Gesù che, vedendolo stare in comunione con Dio nella preghiera, gli chiese di insegnare anche a loro a pregare, come Giovanni il Battista che similmente aveva insegnato ai suoi discepoli un certo modo di pregare. Ovviamente, quindi, la seconda era di carattere simile. Da fonti Talmudiche parallele (Tosef., Ber. iii. 7; Ber. 16b-17a, 29b; Yer. Ber. iv. 7d) si può apprendere che era consuetudine tra i maestri importanti recitare brevi preghiere proprie in aggiunta alle preghiere tradizionali; e ci sono infatti alcune somiglianze notevoli tra queste preghiere e quella di Gesù.

Come le seguenti citazioni dalla Versione Riveduta mostrano, la preghiera in Luca è più breve che in  Matteo, dalla quale essa differisce anche in talune espressioni. Probabilmente entrambe erano in circolazione tra i primi cristiani; quella di Matteo, comunque, è di origine posteriore, come è mostrato oltre:

Matteo

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome
Venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà anche in terra come è fatta in cielo.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano [In Greco: assegnato o necessario]
Rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori;
E non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno
[Aggiunta in molti manoscritti: A te sia il regno, la potenza e la gloria, per sempre. Amen.]

Luca

Padre, sia santificato il tuo nome;
Venga il tuo regno;
Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano [assegnato];
E perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore;
E non ci esporre alla tentazione

La preghiera è una meravigliosa combinazione  o selezione di formule di preghiera in circolazione negli ambienti Assideani [n.d.t.: partito politico ebraico che si oppose sia all'Ellenismo che alla rivolta dei Maccabei]; e non c’è nulla in essa che esprima il credo cristiano, cioè che il Messia sia arrivato nella persona di Gesù. Al contrario, la parte iniziale e principale è una preghiera per la venuta del regno di Dio, esattamente come è il Kaddish [n.d.t.: una delle più antiche peghiere ebraiche], con cui essa deve essere confrontata per poter essere profondamente compresa.

Forma Originale e Significato


L’invocazione "Padre Nostro" = "Abinu" o Abba (quindi in Luca semplicemente "Padre") è comune nella liturgia Ebraica (vedi nella Shemoneh 'Esreh [n.d.t.: preghiera pluriquotidiana detta anche Amidah], la  quarta, quinta e sesta benedizione, e confronta specialmente con la preghiera rituale del Nuovo Anno "Nostro Padre, nostro Re! Dischiudi presto a noi la gloria del Tuo Regno"). Più frequente nei circoli Assideani era l’invocazione "Nostro Padre che sei nei cieli" (Ber. v. 1; Yoma viii. 9; Soṭah ix, 15; Abot v. 20; Tosef., Demai, ii. 9; e altrove: "Yehi raẓon mi-lifne abinu she-bashamayim," [n.d.t.: “Sia fatta la tua volontà padre nostro che sei nei cieli”] e spesso nella liturgia). Un confronto con il Ḳaddish ("May His great name be hallowed in the world which He created, according to His will, and may He establish His Kingdom . . . speedily and at a near time" [n.d.t.: Il Suo eccelso nome sia santificato nel mondo che Egli creò, secondo la Sua volontà, ed Egli regni nel Suo dominio . . . sia presto e tra breve]; si veda Baer, "'Abodat Yisrael," p. 129, nota), con lo Sabbath "Ḳedushshah" ("Mayest Thou be magnified and hallowed in the midst of Jerusalem . . . so that our eyes may behold Thy Kingdom" [n.d.t.: Possa Tu essere glorificato e santificato nel mezzo di Gerusalemme … in modo che i nostri occhi possano contemplare il Tuo Regno]), e con il "'Al ha-Kol" (Massek. Soferim xiv. 12, e libro di preghiera: "Magnified and hallowed . . . be the name of the supreme King of Kings in the worlds which He created, this world and the world to come, in accordance with His will . . . and may we see Him eye to eye when He returneth to His habitation" [n.d.t.: Sia magnificato e santificato . . . il nome del supremo Re dei Re nei mondi che Egli creò, questo mondo e il mondo a venire, secondo la Sua volontà . . . e ci sia dato di vedere Lui faccia a faccia quando Egli ritornerà alla sua dimora]) mostra che le tre espressioni, "Sia santificato il Suo nome," "Venga il suo Regno," e "Sia fatta la sua volontà, come in cielo così in terra," originariamente esprimevano una sola idea, — la richiesta che il regno Messianico si attuasse velocemente, pur sempre secondo la volontà di Dio. La santificazione del nome di Dio nel mondo fa parte dell’instaurazione del Suo regno (Ezech. xxxviii. 23), mentre le parole "Sia fatta la tua volontà" si riferiscono al tempo della venuta, nel senso che solamente Dio Stesso conosce il momento del suo "divino volere" ("raẓon" [n.d.t.: “volontà”]; Isa. lxi. 2; Sal. lxix. 14; Luca ii. 14).

Il problema per i seguaci di Gesù era trovare una forma adeguata per questa particolare richiesta, non potendo essi, come i discepoli di Giovanni e il resto degli Esseni, pregare "Venga presto il Tuo Regno" stante il fatto che per loro il Messia era apparso nella persona di Gesù. La forma riportata come quella che è stata raccomandata da Gesù è piuttosto vaga e indefinita: "Venga il Tuo Regno"; e gli esegeti del Nuovo Testamento la spiegano come riferita alla seconda venuta del Messia, il tempo della perfezione del regno di Dio (cfr. Luca xxii. 18). Nel corso del tempo l’interpretazione della frase “Sia fatta la Tua volontà” è stata estesa nel senso della sottomissione di tutto alla volontà di Dio, al modo della preghiera di R. Eliezer (1° sec.): "Do Thy will in heaven above and give rest of spirit to those that fear Thee on earth, and do what is good in Thine eyes. Blessed be Thou who hearest prayer!" [n.d.t.: Sia fatta la Tua volontà nell’alto dei cieli e sia data la pace dello spirito a coloro che Ti temono sulla terra, e sia fatto ciò che è buono ai Tuoi occhi. Sia benedetto Tu che esaudisci la preghiera!] (Tosef., Ber. iii. 7).

Relazione con l’Attesa Messianica


Anche il resto della preghiera è in stretta relazione all’attesa Messianica. Esattamente come dice R. Eliezer (Mek.: "Eleazar of Modin"): "Colui che creò il giorno creò anche le sue provviste; pertanto colui che, avendo cibo sufficiente per il giorno, dice: 'Cosa mangerò domani?' è da considerare uomo di poca fede come furono gli Israeliti con il dono della manna" (Mek., Beshallaḥ, Wayassa', ii.; Soṭah 48b), così Gesù dice: "Non datevi pensiero per la vostra vita, per ciò che mangerete … o berrete… gente di poca fede … cercate prima il Regno di Dio ... e queste cose vi saranno date in aggiunta" (Matteo. vi. 25-34; Luca xii. 22-31; cfr. anche Simeon b. Yoḥai, Mek. l.c.; Ber. 35b; Ḳid. iv. 14). Essendo così la fede il prerequisito di coloro che aspettano il tempo Messianico, diventa per essi necessario pregare, con le parole di Salomone (Prov. xxx. 8, Hebr.; cfr. Beẓah 16a), "Facci avere il pane necessario" ("leḥem huḳḳi"), cioè il pane di cui abbiamo bisogno quotidianamente.

Essendo il pentimento un altro prerequisito della redenzione (Pirḳe R. El. xliii.; Targ. Yer. and Midr. Leḳah Ṭob to Deut. xxx. 2; Philo, "De Execrationibus," §§ 8-9), una preghiera per il perdono dei peccati è altresì richiesta a questo proposito. Ma questo punto veniva posto in particolare rilievo dai saggi Ebrei di un tempo. "Forgive thy neighbor the hurt that he hath done unto thee, so shall thy sins also be forgiven when thou prayest," [n.d.t.: Perdona al prossimo l’offesa che ti ha fatto, così che anche i tuoi peccati siano perdonati quando pregherai] dice Ben Sira (Ecclus. [Sirach] xxviii. 2). "A chi è perdonato il peccato? A colui che perdona l’offesa" (Derek Ereẓ Zuṭa viii. 3; R. H. 17a; vedu anche Jew. Encyc. iv. 590, s.v.Didascalia). Concordemente Gesù disse: "Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro, che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe" (Marco xi. 25, R. V.). Era questo precetto che suggeriva la formula "E rimetti a noi i nostri peccati ["ḥobot" = "debiti"; l’equivalente di "'awonot" = "peccati"] come anche noi li rimettiamo a coloro che hanno peccato ["ḥayyabim" = "quelli che sono indebitati"] verso di noi."

Direttamente connessa a ciò è anche la preghiera "E non condurci in tentazione." Questo si trova anche nella preghiera Ebraica del mattino (Ber. 60b; cfr. Rab: "Un uomo non deve mai metersi nella tentazione come fece Davide, dicendo 'Esaminami, o Signore, e mettimi alla prova' [Sal. xxvi. 2], e cadde in errore" [Sanh. 107a]). E poiché il peccato è l’opera di Satana (James i. 15), così recita la preghiera finale "Ma liberaci dal maligno [Satana]." Questo, con alcune varianti, è il tema di molte preghiere Assideane (Ber. 10b-17a, 60b), "il maligno" essendo ammorbidito nel "yeẓer ha-ra'" = "desiderio maligno," e "cativa compagnia" o "cattiva sorte"; così parimenti "il maligno" nel Padre Nostro è stato in seguito riferito alle cose cattive (vedi i commenti a questo passo).

La dossologia aggiunta in Matteo, di seguito in molti manoscritti, è una porzione di I Cronache xxix. 11, ed era il canto liturgico con cui il Padre Nostro  si concludeva in Chiesa; si trova anche nel rito Ebraico, l’intero verso essendo cantato all’apertura della “Ark of the Law” [n.d.t.: arco solitamente presente nelle Sinagoghe, in cui sono custoditi i rotoli della Torah].
Ad una analisi approfondita diventa evidente che i versi di chiusura, Matteo vi. 14-15, si riferiscono unicamente alla preghiera per il perdono. Ne consegue che il passo originale era identico a quello di Marco xi. 25; e la Preghiera del Signore nella sua interezza è una inserzione posteriore in Matteo. E’ possibile che il tutto provenisse dalla "Didache" (viii. 2), che nella sua forma originale Ebraica avrebbe potuto contenere la preghiera esattamente come “i discepoli di Giovanni” erano soliti recitarla.

Bibliografia:


  • F. H. Chase, The Lord's Prayer in the Early Church, in Texts and Studies, 3d ed., Cambridge, 1891;
  • Charles Taylor, Sayings of the Jewish Fathers, 1897, pp. 124-130;
  • A. Harnack, Die Ursprüngliche Gestalt des Vaterunser, in Sitzungsberichte der Königlichen Academie der Wissenschaften, Berlin, 1904.



giovedì 18 luglio 2013

Un cuore che interpreta

In effetti dopo il commento chiarificatore di Doron mi rendo conto che è bizzarra e temeraria l'idea di tradurre "cuore senziente" quello che solitamente viene tradotto come cuore che comprende (intelligente), docile (obbediente), che ascolta.

Ne approfitto per precisare che non è mia ambizione dare una traduzione con un qualche valore filologico o esegetico (non ne ho competenza). La mia è una lettura spirituale e soggettiva, che si accosta alle tante possibili, più o meno appropriate, con la sola pretesa di condividere la passione per il testo biblico.

Riporto qui una riflessione ulteriore su cui stavo ragionando nelle scorse settimane, proseguendo sulla scia di quella curiosità iniziale a proposito dello shemà. Forse con essa posso descrivere meglio le suggestioni da cui sono stato sedotto.

Ho trovato infatti nel testo "501 Hebrew verbs" di Shmuel Bolozky, i seguenti quattro verbi derivanti dalla radice ש.מ.ע

  • לשמוע (lishmoa) = hear, listen, consent, understand
  • להישמע (leishama) = be heard, be listened to, obey
  • להשתמע (leishtamea) = be heard, be understood, be interpreted
  • להשמיע (leashmia) = make heard (by playing sound), play (music, song), sound, voice, proclaim, summon

Mi sembra di poter dire che la radice contenga (almeno) questi valori semantici:

  • ascoltare o sentire
  • obbedire, fare attenzione a (osservare)
  • comprendere o interpretare
  • far sentire, suonare (interpretare)

Tutti questi valori semantici possono trovare una sorprendente risonanza nell'immagine (abbastanza biblica) di un cuore che prima sente o ascolta, poi obbedisce mettendo in pratica la Parola, di conseguenza arriva a comprenderla (un ascoltare o sentire più profondamente) e quindi solo alla fine di questo percorso spirituale  può veramente interpretarla, che vuol dire farsi attore, interprete di una partitura, strumento, per annunciarla, farla risuonare e sentire agli altri.

Questo è anche un caso esemplare di ciò che mi affascina irresistibilmente della lingua ebraica: la sua profonda ricchezza e densità semantica.

venerdì 28 giugno 2013

Una bella pretesa

Essere ebrei significa da millenni leggere la Torah. Invece essere cristiani ha significato quasi sempre ignorare la Bibbia.

Poi è arrivato Lutero, e allora ignorare la Bibbia è rimasto un vanto dei cattolici, fino al concilio vaticano secondo.

Provando a leggere la Bibbia mi sono accorto presto che ogni sua traduzione è già una problematica e discutibile interpretazione.

Coltivo quindi la bella pretesa di riuscire un giorno a leggere in ebraico non solo la Tanàkh, ma anche il Nuovo Testamento.

Mi ci vorrà un sacco di tempo: come si dice a Roma "ci puoi morire di vecchiaia". Ma io non ho fretta, lo faccio per amore.

Queste pagine sono il mio taccuino di appunti, in un viaggio che è avventuroso e difficile. Perché è una duplice ricerca di senso: senso della parola e senso della vita.

Rendo pubbliche queste mie riflessioni e mi espongo al giudizio impietoso degli altri nella convinzione cristiana che questo mi corregga e mi aiuti.

E spero anche che possa incoraggiare altri, ignoranti avventurosi come me, a mettersi in cammino.

lunedì 24 giugno 2013

Sentire è di più che ascoltare

In ebraico esistono due verbi, lishmoa (לשמוע) e lehakshiv (להקשיב), che corrispondono all'italiano sentire e ascoltare, e all'inglese hear e listen. La differenza di senso risiede nell'attenzione, per cui è possibile sentire senza ascoltare ma non viceversa. Forse per questo in italiano (diversamente che in ebraico) diciamo proprio "ascolta!" per richiamare l'attenzione.

Perciò non suonerebbe bene tradurre "shemà Israel" con "senti Israele" (come gli inglesi che traducono "hear Israel"), seppure anche noi in modo colloquiale diciamo spesso "senti!" per richiamare l’attenzione di una persona.

Questa sottigliezza linguistica, forse solo esteriore e accidentale, potrebbe passare del tutto inosservata se non fosse che ne nasconde una seconda, più profonda e semantica.

Nel primo libro dei Re, Salomone chiede al Signore di dargli un “lev shemà” (לב שמע) [N.B.: questa mia interpretazione è errata, la lettura corretta è "lev shomè'a", vedi il commento di Doron a questo post]. Le bibbie italiane traducono solitamente con “un cuore intelligente” oppure “un cuore docile”. Questa incertezza tra due significati sostanzialmente piuttosto diversi ci rivela la presenza di un problema semantico correlato allo “shemà Israel”. La traduzione letterale sarebbe infatti in questo caso “un cuore con udito” (shemà è letteralmente udito, sostantivo del verbo lishmoa = udire) e quindi, cercando di tradurre il senso, si potrebbe ottenere al più “un cuore senziente”, mentre tradurre intelligente o docile suona quasi come una forzatura.

Si insinua qui però un'altra possibilità di lettura: e cioè che quando Salomone chiede un “lev shemà”, faccia riferimento a un “sentire con il corpo” che tutti conosciamo molto bene, che non è indirizzato tanto all’intelletto quanto al cuore, simile forse più al sentire il ritmo della musica, che richiede “orecchio”, affinché il cuore batta al ritmo della Parola del Signore. Il riferimento sarebbe quindi a una modalità del sentire che coinvolge i sentimenti, l’anima e lo spirito della persona, di modo che la Torah si faccia carne viva nel nostro corpo, e l’uomo viva "come danzando" in essa.

sabato 25 maggio 2013

Prima fare e poi ascoltare

"Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto." (Esodo 24,7)

Nonostante quanto Gesù ha detto espressamente in Luca 8:21,  nei vangeli non mancano occasioni e segni che possano essere letti in sintonia con Esodo 24,7. A volte Gesù chiede di compiere dei gesti e ne indica il senso solo dopo, a chi lo interroga o ai suoi discepoli.

Ma questo fare prima di comprendere sembra comunque un po' strano, forse anche contrario a un metodo impartitoci dalla scuola moderna, per cui bisogna studiare e conoscere la teoria per poi poter passare alla pratica.

Il brani seguenti, tratti dal prezioso libro di Paolo De Benedetti "Introduzione al giudaismo" (ed. Morcelliana 1999), possono aiutare a capire l'importaza di questo approccio all'interno della cultura ebraica, quella in cui viveva Gesù.

Il popolo di Israele dichiarò: "Tutto ciò che il Signore ha detto, lo eseguiremo e lo ascolteremo" (Esodo 24,7), dichiarazione capitale nell'interpretazione ebraica, che vi legge la decisione di eseguire la volontà di Dio prima ancora di averla "ascoltata", vale a dire: analizzata nel suo contenuto (in questo caso "ascolto" non indica il rapporto primario con la Parola, ma la riflesssione su di essa). E' dunque chiaro che per l'ebraismo fare la volontà di Dio e conoscere Dio si identificano. [pag. 40-41]

La Torà è innanzitutto una rivelazione da mettere in pratica prima ancora di farne oggetto di "Teologia". [pag. 57]

[...] bisogna innanzitutto eseguire la Torà, perché il capire la Torà nasce come effetto dell'eseguirla. [pag. 85]

venerdì 24 maggio 2013

Prima ascoltare e poi fare

"Ascolterai la voce del Signore, tuo Dio, e metterai in pratica i suoi precetti che oggi ti do" (Deuteronomio 27,10)

Questo passo della Torah (confermato da Gesù in Luca 8,21) mette in evidenza due fasi del cammino di fede: ascolto e messa in pratica.

La relazione tra ascoltare e fare non è qualcosa di scontato. Così come si può fare ciecamente senza veramente capire, cioè senza ascoltare; analogamente capita spesso di ascoltare e capire, senza poi mettere in pratica ciò che ci appare troppo oneroso.

Ma conviene soffermarsi anche sull'ordine delle due azioni. Infatti la Torah dice qualcosa di molto interessante in un brano importantissimo del libro dell'Esodo.

"Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto." (Esodo 24,7)

Sul significato di questa inversione tra ascolto e esecuzione, Adolfo Locci, rabbino capo di Padova, ha riflettuto in una pagina che riporto integralmente.

ascolto e azione…
…e dissero: tutto ciò che dice l’Eterno, noi faremo e ascolteremo (Shemot 24:7). Nella Torà si trova una esortazione del tutto opposta: “…e ascolterai per mezzo della voce dell’Eterno e farai le Sue mitzwoth…” (Devarim 27:10). Pertanto, quale è la giusta consequenzialità, se necessaria; bisogna “fare e ascoltare” come proposto dai figli d’Israele sotto il Sinai oppure “ascoltare e il fare” come comandato loro alle soglie di Eretz Israel? Rav Shelomò Aviner spiega che ci sono due possibili collegamenti tra l’ascoltare e il fare: 1. Attraverso la profonda comprensione (ascolto) dell’importanza di una cosa, si può giungere alla sua realizzazione (azione) ; 2. L’azione è la base per la comprensione reale di un principio. Il fatto che i figli d’Israele abbiano anteposto l’azione all’ascolto, testimonia che la tendenza umana prima apre la sua percezione al mondo materiale e poi, attraverso l’esperienza (azione), raggiunge le profondità del mondo spirituale (ascolto) che si cela dietro l’azione. Non è detto, però, che una via sia in antitesi con l’altra, forse si tratta di due possibili visioni della realtà necessarie in diversi momenti della nostra vita…

giovedì 23 maggio 2013

Ascoltare è di più che obbedire

Ma egli rispose loro: "Mia madre e miei fratelli son questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica." (Luca 8:21)

Mentre in Matteo e Marco si parla solo di fare la volontà del Padre, in Luca viene evidenziato l'ascolto della parola, cui deve seguire l'azione. Questo dettaglio richiama in modo esplicito lo Shema Yisrael, e le parole di Gesù molto probabilmente evocavano nei suoi ascoltatori brani della Torah come il passo seguente:
"Obbedirai quindi alla voce del Signore, tuo Dio, e metterai in pratica i suoi comandi e le sue leggi che oggi ti do". (Deuteronomio 27,10)

Bisogna notare che il termine greco εισακουση (LXX) viene tradotto nelle bibbie italiane con obbedire ma in realtà oggi si potrebbe tradurre forse meglio con ascoltare, senza la sottolineatura del comando (la vulgata traduce con audies e il verbo originale ebraico è lishmoa, ascoltare).

Un ragionamento analogo può farsi per il termine φωνης (voce, sentenza) tradotto qui tradizionalmente come "comandamenti", ma che oggi viene reso meglio nel suo significato con il termine "precetti" (che traduce l'originale ebraico mitzvoth).

Una traduzione valida potrebbe dunque essere anche: "Ascolterai la voce del Signore, tuo Dio, e metterai in pratica i suoi precetti che oggi ti do".

Ma il motivo per cui vorrei tradurre "ascoltare i precetti" invece che "obbedire i comandamenti" è sostanziale. Si può obbedire anche ciecamente, senza ascoltare e capire in profondità; oppure si può obbedire per convenienza, per opportunismo, meccanicamente o per compiacere.

Nel verbo ascoltare mi sembra ci sia invece molto di più. C'è una risposta libera, una attenzione che è coinvolgimento, amore. E questo modo di leggere la Torah mi appare più in sintonia con le parole di Gesù.