lunedì 8 maggio 2023

Milonga "Cafè Dominguez"

Al numero 14 di via Rovigo, una viuzza parallela al naviglio, si trova la Bocciofila Martesana. La strada in quel punto fa una curva a gomito con un anonimo cancello sul lato esterno. La domenica dopo le sei di sera si vedono entrarvi persone che han visto molte primavere, con passo tranquillo e misurato, come di chi va a messa.

Il campo di boccie coperto si trasforma la domenica sera in una pista da ballo, circondata di tavoli per chi cena e di sedie per chi viene solo per il tango. Fin quasi a mezzanotte si possono ammirare coppie danzanti avvolte da melodie di un tempo perduto.

Molte donne indossano vestiti della foggia più diversa, che mai oserebbero esporre in altre occasioni che questa: superbamente eleganti, oppure osé per gli spacchi laterali che lasciano spuntare splendide gambe. Alcune sono più discrete nell'abito, ma non nelle scarpe.

Tutte volteggiano con grazia voluttuosa e quando il ballerino si ferma per una breve pausa di sospensione musicale, le gambe disegnano adorni sulla pista come pennelli su una tela. Nessuna coppia fa gli stessi passi. Ognuno ha uno stile diverso quanto il vestito indossato.

All'inizio di ogni tanda gli uomini invitano a ballare le donne mischiandosi spesso e volentieri con chi non si conosce, per il piacere di scoprire la novità di un diverso incedere, la dolcezza di un abbraccio, la poesia di un corpo che si dona per il tempo di qualche canzone.

Si respira una libertà sconfinata, l'essere gioioso di una forma-di-vita che si va perdendo, che è già irrimediabilmente perduta, e che proprio per questo sfugge insolente ad ogni dispositivo di potere.

 
 

lunedì 24 aprile 2023

Radici in cielo

 “La vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere…”.

-- Leopold Sedar Senghor, il vate della negritudine

“In verità vi dico, non resterà qui pietra su pietra che non sarà caduta a terra”

-- Gesù di Nazareth, il figlio dell’uomo


Oggi viviamo in un mondo in cui la retorica diffusa dalle élite dominanti predica un individualismo  cosmopolita, che in realtà ha una natura  apolide. Infatti, i soggetti sono più deboli e facilmente dominabili quando sono isolati dalla comunità e dall'appartenenza a un contesto. Diventa più facile estrarre valore in ogni istante della loro vita, sia durante il lavoro, sia nel loro tempo libero.

Per questo motivo è importante radicarsi in una comunità per potersi difendere da un potere espropriante e alienante. Ma in un mondo sempre più liquido, digitale e deterritorializzato, il legame con la terra è ancora un’opzione disponibile su cui fondare tali comunità? Oppure lo sradicamento è una condizione ormai ineludibile?

Secondo Heidegger gli ebrei erano un popolo “metafisico” in quanto sradicato, ma non so cosa questa espressione voglia dire precisamente. Secondo alcuni interpreti egli sognò di veder rinascere in Germania il pensiero pre-metafisico dell’antica Grecia. Forse era vittima della stessa fascinazione per i pre-socratici che aveva colpito Nietzsche. Però l’aggettivo “metafisico” potrebbe essere qui inteso semplicemente come “distaccato dalla terra”: sradicato, appunto.

Che sia un’idea di Heidegger o meno, poco importa: questa interpretazione dello sradicamento "metafisico" degli ebrei non riesce a convincermi. In primo luogo perché credo che il popolo più metafisico sia stato quello della Grecia classica, che la metafisica l’ha inventata. E poi penso ai filosofi che nel medioevo l’hanno riscoperta e hanno dato inizio a quel movimento del pensiero che, proprio a causa della metafisica, è sfociato nella modernità e ancora oggi sconvolge i nostri tempi.

L’equivoco che confonde metafisica e sradicamento nasce forse dal fatto che il pensiero moderno, come quello metafisico dei greci antichi, dà a molti un certo disagio, mettendo tutto in discussione, fa come mancare la terra sotto i piedi, dà un senso di instabilità, una sorta di mal di mare. E quindi fa sentire il bisogno di stare ben radicati a terra. Soprattutto se non si è bravi marinai come lo erano i greci. Applicando un approccio ermeneutico “fisiologico”, come usava fare spesso Nietzsche, la filosofia tedesca, a partire da Kant fino a Heidegger, si potrebbe rileggere come un tentativo malriuscito di curarsi dal mal di mare che affligge il pensiero della civiltà occidentale.

La contrapposizione di Terra e Mare di cui parla Schmitt può essere ancor meglio riletta come un riaffiorare della contrapposizione tra Parmenide ed Eraclito. Per cui vediamo ripresentarsi nei filosofi e negli statisti della modernità l’ansia di stabilire qualcosa di definitivo. I tentativi di realizzare un regno idealmente perfetto su questa terra, come erano stati fatti nell’antichità, si pensi solo a Platone, si riaffacciano così anche nella Storia più recente. Il sistema del filosofo e l’organizzazione del politico inseguono così come un miraggio quel sogno di stabilità e perfezione che possa salvare il pensiero e la polis dal non essere, dal naufragio e dall’oblio.

Trovo assai curioso ad esempio che l’impero marittimo degli Stati Uniti raffiguri sé stesso come “la città sulla collina”, usando l’espressione coniata dal nobile inglese puritano John Winthrop e citata dai presidenti Kennedy e Reagan. Winthrop, salpato nella primavera del 1630 a bordo della nave Arbella, scrisse durante il lungo viaggio un sermone dal titolo “Un modello di carità cristiana”. Con quel sermone volle indicare i tratti distintivi della comunità puritana da fondarsi a ovest dell’Oceano Atlantico.

Mi immagino Winthrop mentre combatte il mal di mare rileggendo il sermone della montagna “Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta…” (Matteo 5:14). E il giorno dopo, passata la burrasca, lo vedo intento a scrivere “For wee must consider that wee shall be as a citty upon a hill. The eies of all people are uppon us”. Non è forse il puritanesimo un sintomo anch’esso di quell’ansia di stabilità che massimamente affligge ancora noi post-moderni, in preda ai flutti di un mondo che si muove sempre più vorticosamente fino a darci la nausea?

La metafisica è dunque di certo una causa dello sradicamento, ma non l'unica. Cioè non si può dire che chi è sradicato sia perciò necessariamente un metafisico. C’è infatti un grande insegnamento nella tradizione ebraica e nelle parole di Gesù, che si riassume nell’escatologia dove il regno dei cieli e la terra promessa non sono nella Storia ma alla fine di essa, al suo compimento. Tale prospettiva potrebbe aver contribuito a sviluppare una forma di sradicamento che ha poco o nulla a che vedere con la metafisica.

Va allora riconosciuto all’ebraismo di aver mostrato, con la rinuncia alla ricostruzione del tempio (almeno fino ad ora), la possibilità di essere fedeli ad una promessa senza l'ansia di vederla attuata, senza cioè tradirla con il vano tentativo di compierla nel presente, di anticiparla forzatamente, come invece i metafisici antichi, moderni e post-moderni hanno a lungo cercato di fare. E questa possibilità si è articolata per secoli nella diaspora di una pluralità di comunità che pur differenziandosi in vario modo, restano unite, tra loro e al loro interno, nella fedeltà a quella promessa, come da un rizoma le cui radici sono in cielo anziché in terra.

La metafisica proietta la stabilità perduta nell'iperuranio dell'essere, per preservarla dal non-essere, struggendosi poi nel tentativo inattuabile di riportarla in terra e fermare il divenire. L'escatologia per contro fa irrompere l'Eterno nella Storia, stipulando con esso un'Alleanza, dalla quale nascono una promessa e una speranza rivolte al futuro, capaci di indirizzare il divenire. Chi cerca di rimettere radici lotta con gli altri per possedere la terra. Chi aspetta il Messia lotta con sé stesso e si prende cura degli altri, per entrare tutti insieme nel regno dei cieli.

Eugène Delacroix “Cristo sul Lago di Gennesaret, c. 1853


domenica 9 aprile 2023

Taiten

 “Io sono sempre più scandalizzato
dall’assenza di senso del sacro
nei miei contemporanei”
Pier Paolo Pasolini

Chi è interessato al dialogo ecumenico della Chiesa Cattolica con il Buddhismo, potrebbe un giorno interrogarsi sul senso di un’esperienza che è presente in Italia ormai da più di trent'anni. Si tratta del monastero Zen di Fudenji, una testimonianza straordinaria per la trasmissione del senso del sacro alle generazioni future.

Il monastero di Fudenji è un’opera di alto valore simbolico, che ci invita a guardare forme per noi occidentali esotiche, ma di cui possiamo riconoscere le profondità liturgiche, artistiche e spirituali. Questa esperienza rieduca il nostro sguardo a vedere con occhi nuovi anche le nostre forme antiche della liturgia e dell’arte, dense di senso e di simboli, ma divenute per la maggioranza di noi scontate e quindi come invisibili. Uno sguardo nuovamente capace di provare meraviglia di fronte ai simboli della trascendenza, commosso da un’esperienza estetica, risvegliato al senso del sacro, è indispensabile per recuperare qualcosa in larga misura smarrito nella nostra fede cristiana.

Può essere utile allora a tale scopo rileggere la profezia di Joseph Ratzinger che il maestro Fausto “Taiten” Guareschi, allora Abate di Fudenji, lesse nella chiesa di San Martino in Greco a Milano, la sera del 23 marzo 2018, in prossimità della Pasqua.

“Ripartirà da piccoli gruppi, - dice Joseph Ratzinger [nel 1969] - da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino. [...] Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto. A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono anche certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte.”

E dopo questa citazione, il maestro Taiten disse: “Bene, sono parole che mi danno una solitudine profonda anche perché sapete, a tutti gli effetti io sono cristiano cattolico, e non trovo niente di discordante nell’aver cercato, forse in un piccolo gruppo, una piccola comunità, come sembra indicare Joseph Ratzinger, il reinizio della chiesa. Al di là che io possa essere buddhista o meno, ciò che importa è la ripartenza.”

Allora chi si occuperà del dialogo ecumenico con il Buddhismo, un giorno potrebbe forse scoprire un volto sorprendentemente cristiano nel cuore di un uomo che ha saputo farsi “straniero”, a partire da  una grande lontananza, per poter essere profeta in patria.

domenica 21 aprile 2019

Una storia senza eroe

Ho sentito Rav Della Rocca spiegare che in Sinagoga il giorno in cui si arriva a leggere l’ultima pagina della Torah, si ricomincia dall’inizio, in modo da proseguire in una lettura infinita.

In effetti non c’è un personaggio che si possa considerare il vero protagonista della Bibbia,  un eroe. Sono tutti mai del tutto santi, mai davvero eroi.

Abramo, Giacobbe, Mosè, Davide, Isaia, tutti appaiono e ad un certo punto escono di scena senza che ciò determini una conclusione del racconto. È come se in modo implicito anche il lettore sia invitato a fare la sua comparsa, per il tempo della propria vita, nel palcoscenico del mondo.

Particolare del Sacrificio di Isacco (Caravaggio)
Particolare del Sacrificio di Isacco (Caravaggio)

Questo invito è troppo impegnativo per la maggioranza delle persone. Essere ebrei è quindi un destino per una minoranza: un’elezione o una condanna, o forse entrambe le cose.

Così da un certo punto di vista, un po’ riduttivo, il cristianesimo può sembrare come una versione dell’ebraismo adattata ai pagani, accessibile anche ai goym, essoterica, divulgativa, più facile per tutti. La storia ha un inizio, una fine e un eroe senza macchia.

Ma pure quell’eroe scompare, esce di scena, almeno temporaneamente, e altri diventano i protagonisti di una storia che continua nella Storia. In primo luogo perché tocca a tutti noi, anche in questo caso, fare la nostra parte, fino al Suo ritorno.

E poi perché la Storia del mondo, quella fatta dalle nostre tante vite umane, non gira mai attorno a un solo eroe. Tutti siamo chiamati ad essere santi, almeno un poco, ma nessuno potrebbe mai esserlo in modo esclusivo. Proprio come nella Torah, dove il vero protagonista ed eroe è il volto sfuggente del totalmente Altro, che a volte si intravede appena, solo nel volto inerme del prossimo.
 

martedì 1 gennaio 2019

Clara

Ci sono immagini che mi appaiono all’improvviso, poi mi perseguitano per giorni fino a che non capisco il loro messaggio. Mi è successo l’altro giorno con una scena del film “La casa degli spiriti”, mentre ero a tavola, inaspettatamente.

Nel film Clara è a tavola e chiede alla cameriera di dire qualcosa a Esteban, il protagonista, suo marito. Lei ha promesso anni prima di non parlargli più. Perciò comunica con lui solo così, per interposta persona.
Ragionando su questa immagine mi sono ricordato che Sergio Quinzio sostiene ne “Il Silenzio di Dio” una tesi che non condivido. Lo fa con mirabile intelligenza e profondità. Ma secondo me Dio è tutt’altro che muto. All’inizio l’Altissimo parla sempre direttamente con l’Adam, l’Uomo. Poi succede qualcosa, un tradimento. Da quel momento inizia a parlare solo per mezzo dei Profeti.

Trovo che nessuna immagine sia tanto efficace per rappresentare il modo in cui Dio ha scelto di parlare agli uomini, quanto quella di Clara, che non smette mai di amare suo marito, nonostante la sua brutalità, ma si rifiuta ostinatamente di rivolgergli la parola.

La determinazione e la grazia, la fermezza e la mitezza di quella donna, sono gli attributi più pregnanti che mi aiutano a decifrare una sorta di enigma. Mi sembra di intuire in che modo si giochi la relazione, difficile ma non impossibile, tra noi e quel totalmente Altro che siamo chiamati ad ascoltare, sebbene le sue parole non sembrino mai rivolte direttamente a noi.



sabato 8 dicembre 2018

Per mezzo dei Profeti

Spesso la fede di molti appartenenti al cattolicesimo si concentra sulla persona di Gesù, e in particolare sulla immagine del crocifisso, fin quasi a trascurare persino la sua resurrezione.

Il credo è fatto di tre parti di cui solo la seconda è centrata sul Cristo. La prima ci parla del Dio di Abramo e di Mosè che è descritto nel pentateuco, la Torah.

Nella terza parte il credente professa la sua fede nello Spirito Santo che dà la vita e ha parlato per mezzo dei Profeti.

Chi sono i Profeti? Il primo di essi non è forse Mosè, cui secondo la tradizione dobbiamo appunto la Torah?

Può dunque un cattolico permettersi di ignorare o sottovalutare il contenuto del pentateuco e di quel che nella Bibbia precede i Vangeli? Eppure per secoli abbiamo letto solo il finale del romanzo.

Mi viene da domandarmi spesso anche un’altra cosa. Lo Spirito parla ancora o è diventato muto? E se parla ancora, allora, perché diciamo “ha parlato”, al passato? Che poi è un passato prossimo, non remoto. E infatti quelli che noi chiamiamo Santi, non sono forse anche loro dei Profeti?

Non è forse lo Spirito che parla attraverso di loro? Non è che siamo sempre in ritardo, noi contemporanei, anche noi duri d’orecchi, a riconoscere la voce dello Spirito che ci parla per bocca di qualcuno, adesso?

Ha parlato. Come si direbbe di un autobus che abbiamo appena perso: è passato. Come se non passasse ancora a momenti. Anzi: se lo ascoltassimo ci parlerebbe in ogni istante, con un mormorio di vento leggero (1Re 19,12). Quanto siamo ciechi e sordi. Ascolta, Israele!



martedì 20 novembre 2018

Un'idea di libertà

“Le tavole erano opera di Dio e la scrittura di Dio 
era libertà sulle tavole.” 
Esodo 32:16

“È libero solo colui che si dedica allo studio dell’Insegnamento” 
Avot 6:2

Non ricordo con precisione come sia successo, né la data precisa, ma una decina di anni fa è affiorata in me la domanda seguente: “perché gli ebrei sono stati perseguitati ripetutamente, per più di tremila anni”?

Può sembrare mossa dalla curiosità, o forse da un interesse culturale, ma in ogni caso rimane un problema che ha riguardato una moltitudine di persone lungo la Storia. In effetti io stesso pur avvertendo l’urgenza di trovare una risposta, procedevo senza capire perché la stessi cercando. L’ho capito solo quando, trovata la risposta, ho scavato più a fondo in me stesso.

Ho dovuto innanzitutto iniziare a guardare la Bibbia in modo anticonvenzionale: come la più antica e duratura “istanza critica contro ogni cultura dominante”, come la definisce Silvano Fausti, nel suo libro intitolato “Per una lettura laica della Bibbia”.

Poi ho dovuto capire chi erano effettivamente quegli Ebrei che hanno dato vita al monoteismo in occidente. Qui mi è venuto in soccorso Moni Ovadia, con il suo spettacolo Kavanah, in cui declamava citando a braccio dal libro “Storia degli ebrei” di Chaim Potok: “Erano una massa terrorizzata e piagnucolosa di asiatici sbandati. Ed erano: Israeliti discendenti di Giacobbe, Accadi, Ittiti, transfughi Egizi e molti habiru, parola di derivazione accadica che indica i briganti vagabondi a vario titolo: ribelli, sovversivi, ladri, ruffiani, contrabbandieri. Ma soprattutto gli ebrei erano schiavi e stranieri, la schiuma della terra”.

Poco oltre il passo citato da Ovadia, Potok scrive anche che “il riconoscimento biblico dello schiavo come un individuo che ha dei diritti, sebbene gli manchi lo stato di uomo libero, non ha paralleli nelle leggi mesopotamiche”. Insomma avere dei diritti per il solo fatto di essere umani era un’idea sovversiva per quei tempi.

Ho passato poi un’intera estate a leggere il libro di Potok e a stupirmi di come la storia degli Ebrei sia intimamente legata alla storia dell’occidente, al punto che non conoscerla significa non capire veramente a fondo la nostra Storia.

E così mi sono soffermato a riflettere su due pilastri, profondamente innovativi per l’antichità: la libertà dall’oppressione, per tutti, e l’alfabetizzazione, funzionale a tale libertà (“scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” Deuteronomio 6:9). E un gruppo di individui che predica libertà e alfabetizzazione per tutti è un chiaro pericolo per ogni forma di potere. Si capisce dunque la persecuzione.

È stato solo in quel momento, trovata la risposta al quesito iniziale, che ho capito anche da dove veniva la domanda. Era sgorgata inconsapevolmente dal mio amore per la libertà individuale, dal mio cuore anarchico, che fin da adolescente sempre ha diffidato di ogni forma di organizzazione che preveda una “catena di comando”. E da quel momento ho iniziato anche a scoprire moltre altre cose e “vedere” ciò che spesso è sotto gli occhi di tutti, ma che quasi nessuno vede, a causa della propaganda che la cultura dominante esercita sistematicamente.

Il linguista Joel Hoffman sostiene, nel saggio “In the Beginning: A Short History of the Hebrew Language”, che l’invenzione delle “madri di lettura” fu determinante per rendere la scrittura accessibile a tutta la popolazione, non più privilegio esclusivo dei potenti e dei funzionari. Non a caso il tetragramma è composto solo da madri di lettura. E quando Dio cambia nome ad Abramo e Sara, lo fa inserendovi una madre di lettura, come cifra di una appartenenza. Tale invenzione linguistica portò poi alla introduzione esplicita delle vocali negli alfabeti derivati dall’antico ebraico (detto anche fenicio), quali sono il greco e il latino, favorendo la diffusione della scrittura e della lettura presso tutti i popoli.

Se nel mondo occidentale di oggi i diritti umani e il divieto di uccidere e rubare sono qualcosa di scontato, lo si deve in buona parte anche a chi, 3.200 anni fa, ebbe il coraggio di difendere tali diritti e doveri. Il decalogo è stato scritto in ebraico, con i caratteri ebraici antichi (non esistevano ancora quelli aramaici). Certo, erano gli stessi caratteri usati dai vicini fenici. Ma il fatto che a scuola ci insegnino che i nostri alfabeti occidentali derivino proprio dal fenicio, una lingua di cui non ci è giunta nessuna opera letteraria degna di nota, e negando di fatto una radice ebraica delle lingue scritte, è quantomeno imbarazzante.



Mi è bastato leggere alcune delle ricerche di Giovanni Semeraro per scoprire in seguito come anche il significato nascosto di migliaia di vocaboli occidentali risieda nel suono originario dell’Accadico, che spesso si ritrova rispecchiato fedelmente anche nell’Ebraico.

Ma queste cose possono forse apparire persino aride se confrontate con altre affascinanti scoperte che rivelano quanto l’occidente sia influenzato dalla cultura ebraica, almeno tanto quanto quella ellenistica. 

Tutti gli studenti di liceo hanno sentito parlare sui banchi di scuola del grande filosofo alessandrino Filone di Alessandria. Pochi sanno che era ebreo osservante. Né tantomeno che il fratello di Filone, Alessandro l’Alabarca, ricchissimo e potente amico di Roma, fece ricoprire con lastre d'oro ed argento massiccio nove porte del meraviglioso tempio di Gerusalemme. Il figlio di Alessandro, Tiberio Giulio Alessandro, abbandonò la religione del padre, divenne un politico e generale romano, appartenente all'ordine equestre dell'Impero. In occasione dell'assedio di Gerusalemme, ricopriva il ruolo di comandante in seconda di Tito e distrusse il tempio adorato dal padre. In due sole generazioni di una stessa famiglia possiamo vedere come la storia dell’ellenismo e dell’ebraismo siano state intrecciate quanto i fili di trama ed ordito.

Cicerone già nel 59 a.C. nell'orazione per Lucio Flacco descriveva con una certa preoccupazione la presenza di una fortissima comunità ebraica a Roma, che oggi può quindi vantare di essere certamente tra le più antiche della Storia. Non fu quindi su un terreno vergine, fatto di pagani ignari del monoteismo ebraico, che i seguaci della via di Gesù predicarono la buona novella del Messia risorto per la salvezza di tutti gli uomini, senza confini di appartenenza. I primi cristiani parlavano prima di tutto agli ebrei nelle sinagoghe e ai pagani già simpatizzanti e affascinati da un ebraismo che prometteva libertà e salvezza per tutti.

Proprio per questo la convivenza tra cristiani ed ebrei non fu semplice, ma nel tempo ha conosciuto anche momenti più felici, come è testimoniato ad esempio da un commovente sonetto di Gioacchino Belli del 9 maggio 1835 intitolato “La morte der Rabbino” che purtroppo le antologie scolastiche non si preoccupano minimamente di divulgare:

    È ito in paradiso oggi er Rabbino,
che ssaría com’er Vescovo der Ghetto;
e stasera a li Scòli j’hanno detto
l’uffizzio de li morti e ’r matutino.

     Era amico der Papa: anzi perzino
er giorn’istesso ch’er Papa fu eletto
pijjò la penna e jje stampò un zonetto 
scritto mezzo in ebbreo mezzo in latino.
              
     Dunque a la morte sua Nostro Siggnore
cià ppianto a ggocce, bbe’ cche ssia sovrano,
e cce s’è inteso portà vvia er core.
              
     Si ccampava un po’ ppiú, tte lo dich’io,
o nnoi vedemio er Rabbino cristiano,
o er Papa annava a tterminà ggiudio.

L’epurazione di ogni legame con l’ebraismo è così forte nella nostra cultura, che quando faccio notare che il nome del nostro più illustre scienziato, Galileo Galilei, è massimamente ebraico, quasi sempre vedo sguardi increduli e stupefatti. Tutti siamo ammaestrati a pensare subito a Pisa, la torre da cui egli misurava la caduta dei gravi, mai alla regione che diede i natali al Nazareno: la Galilea. Non so se egli fosse di origini ebraiche, non lo si può sapere, come per molti italiani, ma è certamente un fatto assai curioso che il suo nome neppure suoni alle nostre orecchie come toponimico!

Tutti conoscono Don Lorenzo Milani, ma pochi sanno che fosse ebreo. Paolo Levrero nel 2013 ha pubblicato un saggio intitolato “L’ebreo don Milani” che getta luce nuova sull’impegno sociale dell’ex parroco di Barbiana, basata non a caso sulla pedagogia e l’alfabetizzazione. E con Milani siamo tornati al punto iniziale del discorso: la difesa della libertà e della dignità di ogni singolo individuo, inteso in senso universale, senza distinzione o appartenenza identitaria.

Ma bisogna ancora ricordare un altro pedagogo famoso: Achille Ratti, che da giovane insegnava matematica al seminario minore. Dopo aver studiato l'ebraico al corso arcivescovile, approfondì gli studi con il rabbino capo di Milano Alessandro Da Fano, diventando poi docente di ebraico in seminario nel 1907 e mantenendo l'incarico per tre anni. Come docente portava i suoi allievi nella Sinagoga di Milano, affinché familiarizzassero con l'ebraico orale.

Fu forse anche per questo che, diventato Papa con il nome di Pio XI, il 6 settembre 1938, all’indomani del primo “Provvedimento per la difesa della razza” (con il quale scolari e docenti ebrei vennero esclusi dalle scuole pubbliche e dalle università), pronunciò un discorso di denuncia verso l’antisemitismo. Discorso sconosciuto ai più, anche perché l’intervento venne pubblicato sull’Osservatore Romano in versione ridotta. Insomma venne censurato: e pensare che lui era il Papa!

Oggi sento che noi occidentali dovremmo tutti fare nostre le parole conclusive del discorso di Achille Ratti, pubblicato integralmente nel libro di Emma Fattorini "Pio XI, Hitler e Mussolini": “Abramo è definito il nostro patriarca, il nostro avo. L'antisemitismo non è compatibile con il sublime pensiero e la realtà evocata in questo testo. L'antisemitismo è un movimento odioso, con cui noi cristiani non dobbiamo avere nulla a che fare. … Attraverso Cristo e in Cristo noi siamo i discendenti spirituali di Abramo. … Non è lecito per i cristiani prendere parte all'antisemitismo. … L'antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente siamo tutti semiti.

Queste parole risuonano come un grido di lacerazione profonda del cuore. Poiché il senso dell’essere cristiano non può che essere nell’aderenza alla spiritualità ebraica di cui Rabbi Yeshua fu testimone fedele, nella tradizione di Abramo. Ma anche un Papa, in cima a una “catena di comando”, ne è vincolato tanto quanto chi si trova negli anelli più bassi. Per quanto fosse ispirato e profondamente cristiano, non poteva concedersi di essere più libero che in quel suo accorato discorso.