domenica 17 aprile 2016

Un bicchiere

Sembra esserci un legame sotterraneo tra le varie dipendenze, per cui taluni sostengono che non se ne può guarire: al più se ne sostituisce una con un'altra. Mi è tornato in mente questo pensiero vedendo la foto scattata da un’amica in un Bar di Bologna. E nel riflettervi mi ha assalito come una visione, con una prospettiva più vasta.

Poesia di Vincenzo Costantino Cinaski
Ho come la sensazione che tutti debbano aver sperimentato talvolta, fin da piccoli, un senso di straniamento, la sensazione che in questa vita ci sia qualcosa di sbagliato. Ad un certo punto però sorge il dubbio che semplicemente si viva in modo innaturale: l'uomo forse ha costruito un sistema di vita, la cosiddetta civiltà, che è profondamente lontano dalla condizione d'origine. E sembra esserlo in moltissimi aspetti: a partire dai più elementari come il tempo, il ritmo di vita, i luoghi e gli spazi, il cibo. Perciò forse il nostro corpo, il nostro istinto animale , se ne accorgono e ce lo rimproverano.

Si può poi discutere se esista un impulso contro natura che spinge l'uomo ad una vita innaturale come sintomo di una malattia, evidenza di un destino della specie umana nefasto, che come un cancro del pianeta porterà alla distruzione e alla ascesa futura forse di altre forme di vita. Oppure se l'uomo abbia in sé l'anelito al superamento della natura, che lo potrebbe portare grazie alla tecno-scienza ad un futuro transumano. Oppure ancora se l'uomo abbia in sé una scintilla del divino che lo spinge all'antica trascendenza spirituale.

Ma qualunque siano le cause e i destini, rimane il fatto che l'uomo sembra soffrire questo suo essere a metà strada, questo suo aver debordato dal naturale, superandolo e travalicandolo, senza però aver ancora completato il tragitto, senza riuscire a trovare dimora e sentirsi a proprio agio, scoprendosi ramingo e inquieto, sempre in cerca di una meta confusa, un approdo lontano, oltre l'orizzonte.

Mi è apparsa come una rivelazione: su questa condizione si fonda il disagio che ci affligge fin da giovani e si protrae, sopito in modo più o meno latente, negli adulti, rassegnati con ironia o malinconia. E tutte le forme di sballo, di evasione, di dipendenza, di nevrosi, tutto il repertorio dei disturbi che l'umanità manifesta in modo variopinto, allora forse non sarebbero altro che un carnevale perenne, un disperato tentativo di sfuggire a quel senso di disagio del sentirsi umano o meglio, come ebbe a dire il filosofo di Roken, “troppo umano”.

domenica 10 aprile 2016

Una lettera sacra

Plutarco scrive in un dialogo intitolato “L’E di Delfi” (Dialoghi delfici, Adelphi 1983) che Apollo ama suscitare e proporre i dubbi dell’intelletto agli uomini che possiedono un’indole filosofica, risvegliando nelle loro anime la passione per la verità. E soggiunge: “Ciò appare in moltissimi casi, ma in particolare a proposito del carattere sacro della lettera E”.

http://www.adelphi.it/libro/9788845905346
La mia curiosità cristiana per l’ebraismo probabilmente mi conduce talvolta a vedere o cercare tracce di esso anche dove non può esservi in alcun modo. Mi trattengo quindi dal fare parallelismi strampalati, che pure ad un lettore ignorante e superficiale come me vengono subito in mente leggendo questo dialogo: tra il metodo dialettico e quello midrashico, tra il pitagorismo e la cabala, tra il dio unico affermato infine nel testo di Plutarco e quello di Abramo.

Nel dialogo citato ad un certo punto si dice anche: “Poiché il principio della filosofia sta nell’indagine, e quello dell’indagine sta nello stupore e nel dubbio, è probabile che pressoché tutte le questioni riguardanti il dio siano state avvolte di enigmi”. Ed è proprio in questo stesso stupore e dubbio che mi sono ritrovato leggendovi del carattere sacro della lettera E.

Mi sono ricordato infatti di quanto scrive il linguista Joel Hoffman (“In the Beginning: A Short History of the Hebrew Language”, 2006) circa il passo di Genesi 17 “Non ti chiamerai più Abram (אַבְרָם) ma ti chiamerai Abraham (אַבְרָהָם)”. Hoffman non è interessato alla plausibilità della storia, l’esistenza o meno di un Dio e di una persona chiamata Abramo, tra cui sia stata stipulata una alleanza. Hoffman è un linguista e si pone solo una domanda di storia della lingua ebraica: “perché venne usata una He per contrassegnare l’iniziazione nella cultura Ebraica?”. La He compare due volte nel tetragramma ineffabile.

Non è da annoverare tra “le fantasie esposte il giorno prima da un ospite caldeo” (per citare un’altra frase dal dialogo delfico) il fatto che l’alfabeto greco sia mutuato da quello protosemitico e che la lettera E (epsilon) dell’alfabeto greco derivi dalla lettera ה (He). Certo, il pensiero neopagano di oggi direbbe che è solamente un caso. Ma, per chi vive ancora nello Spirito, il caso non esiste.

mercoledì 17 febbraio 2016

Il corpo e il marmo



Questa immagine è inquietante. Nonostante le clausole legali che quella persona possa aver letto e sottoscritto. Si tratta di un corpo umano trattato con la tecnica della plastinazione, esposto alla mostra itinerante Body Worlds.

La questione mi ha fatto riflettere sul tema dell'arte e del corpo e mi sono tornate in mente le sculture di Michelangelo.


Ho trovato un testo (I Prigioni o Schiavi di Michelangelo all'Accademia) che tratta quasi lo stesso tema: "Ogni blocco mostra una solida muscolatura delle braccia e delle gambe abbozzati in modo dinamico e potente, traccia concreta della profonda passione che Michelangelo nutriva per l’anatomia umana. La conoscenza minuziosa dei dettagli era infatti stata affinata grazie alla possibilità di dissezionare cadaveri presso i frati agostiniani di Firenze negli anni ’90 del Quattrocento."

“C’è un senso di tensione, di movimento impresso dall’accentuata torsione: questa lotta esprime in Michelangelo una sorta di analogia simbolica fra la figura che tenta di fuoriuscire dal marmo e lo spirito che cerca di liberarsi dalla carne per anelare a Dio.”


Nei corpi plastilinati di Body Worlds c’è una tensione diversa, come meccanica, priva di vita. Questo è ciò che li rende inquietanti ai miei occhi. È sorprendente che Michelangelo abbia potuto mettere tanta vita nel marmo osservando corpi morti come quelli che si vedono in quella mostra. Forse è come se lui frugasse nei cadaveri cercando la vita, mentre lo sguardo secolarizzato vede questi corpi solo come macchine. Il processo con cui lui scolpiva presupponeva al contrario una forma immanente seppure nascosta. La statua per Michelangelo era già presente nella pietra, il suo lavoro consisteva nel togliere ciò che le impediva di venire alla luce.

Questa capacità di vedere nella materia una forma invisibile, se così si può dire, rivela la cifra della trascendenza, differenzia lo sguardo spirituale da quello scientifico.

martedì 11 novembre 2014

I volti del Signore

In ebraico "volto" si dice con il termine פָּנִים [pa-nìm] che è plurale e non ha la forma singolare. פָּנִים significa anche facciata (di una casa) o superficie (di un lago). Il nucleo semantico potrebbe essere reso con l'espressione "ciò che è davanti".

Il fatto che sia plurale suona come una stranezza a un madrelingua italiano (e forse anche a qualunque altro europeo) dato che tutti i termini con cui siamo soliti esprimere questo nucleo semantico hanno anche il singolare.

Per i termini facciata e superficie, il plurale e il singolare si usano con lo stesso significato. Per il termine volto invece la situazione è un po’ differente. Siamo soliti pensare al volto di un individuo come a qualcosa di unico, tanto che apponiamo la foto tessera sui documenti come mezzo di riconoscimento univoco dell'identità.

In un certo senso il termine volto incarna la nostra fiducia (o ingenuità) nel fatto che l'unità di fondo dell'essere possa apparire tale anche in superficie. Per contro il termine ebraico פָּנִים ci ricorda come l'unità sia da cercare attraverso le sfaccettature e interpretazioni del molteplice.

Il plurale "volti" in italiano si usa raramente in riferimento a uno stesso soggetto, in modo figurativo o al più diacronico. Un'espressione come "i molti volti del signor x" fa pensare subito a un mascheramento prima che a un album fotografico.
Anche il termine persona ha perso per noi il significato latino di maschera, così come l'idea di verità non è più legata al disvelamento come era nel termine greco αλήθεια [aletèia].

Quando pensiamo al volto del Signore può essere utile tenere presente il termine ebraico e la sua pluralità. Potremmo arrivare a costruircene una idea più sorprendente. Come deve aver fatto Barbara Hall quando ha realizzato la serie televisiva Joan of Arcadia.

venerdì 14 marzo 2014

Il sogno di una cosa

Sono stato folgorato da una tua citazione (in quella serata sul Menabò industriale): IL SOGNO DI UNA COSA. Ti sarei molto grato se tu mi trascrivessi la frase di Marx – o l'intera pagina – da cui hai tratto la citazione, e me la mandassi, da mettere come epigrafe al libro.
Pier Paolo Pasolini a Franco Fortini, gennaio 1962
La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna, che l’uomo si svegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Ogni nostro fine non può consistere in altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente.
Il nostro motto deve dunque essere: riforma della coscienza non attraverso dogmi, ma attraverso l’analisi della coscienza mistica, non chiara a se stessa, si presenti in forma religiosa o politica. Si vedrà allora che da tempo il mondo custodisce il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di prendere coscienza, per possederla veramente.
Si dimostrerà che non si tratta di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di portare a compimento i pensieri del passato. Si vedrà in ultimo che l’umanità non inizia un nuovo lavoro, ma porta a termine con coscienza il proprio antico lavoro.
Karl Marx ad Arnold Ruge, settembre 1843

La prima volta che lessi la frase di Marx fu nella citazione che ne fece Pasolini. Ero poco più che adolescente. Rileggendo Pasolini anni dopo ebbi la curiosità di risalire alla versione originale di Marx e fui molto colpito dal fatto che Pasolini l’avesse troncata, omettendo anche l’aggettivo “mistica” in relazione alla coscienza. Gli perdonai l’omissione pensando al contesto culturale di quegli anni. Ma al contempo mi illuminò enormemente su quanto del pensiero antropologico e spirituale di Marx viene sistematicamente omesso.

Era proprio la coscenza “mistica” di Pasolini (esondante e in contrasto con le anguste visioni dell’ortodossia) che da giovane mi interessava, che mi faceva cercare nei suoi libri la voce di un maestro che mi indicasse una via (Dō). Una coscienza mistica che in me doveva poi maturare fino al punto in cui è nata, anni dopo, l’esigenza di “riandare” alla “poesia della tradizione”, per usare parole di una sua poesia (Transumanar e organizzar, 1971).

Non è facile definire cosa sia stato e sia per me questo “riandare”. Partendo dal modo in cui Pasolini usa questo termine mi viene oggi da pensare alla radice ebraica ש.ו.ב (shuv) che significa tornare (o ripetere). Da questa radice viene anche il termine תשובה (teshuva) che viene tradotto con “pentimento” perdendo così il senso di un “tornare (a Dio)” insito nella radice. Infatti mentre il termine pentimento può suonare come un cambiamento puntuale del proprio stato d’animo interiore, il tornare è un movimento fisico, un percorso articolato lungo la via (הלכה, Halakah), che solo come risultato finale produce il raggiungimento di un traguardo spirituale: diventare צדיק (Tzadiq), cioè giusto, e diventarlo ancor più intensamente di chi lo è stato invece fin dal principio, senza mai smarrirsi.

Il mio riandare alla poesia della tradizione in questi anni mi ha avvicinato infatti (finalmente) alle radici ebraiche della cultura occidentale cristiana, che costituiscono la nostra principale tradizione spirituale. Poiché “spiritualmente siamo tutti semiti” (Achille Ratti, settembre 1938).

E questo va detto nonostante i preziosi sforzi di Jung di resuscitare una tradizione attraverso lo studio dell’alchimia e delle sue forme e pratiche trasmutative, che fosse in sintonia con l’anima dell’occidente. Poiché l’oblio delle proprie radici spirituali è la cifra destinale di questa nostra civiltà. Qualunque forma di spiritualità viene oggi di fatto rigettata (al di là di fugaci mode esteriori), poiché non è compatibile con l’idolatria dell’Uomo (e delle merci da lui prodotte e consumate ossessivamente), tanto quanto non lo era l’idolatria di Dio di cui ci si è faticosamente sbarazzati con l’illuminismo (e che da Marx in poi chiamiamo brutalmente religione).

Il fascino che agli occhi degli occidentali hanno il Buddhismo come il pensiero junghiano risiede quindi oggi principalmente nel fatto che non parlano di alcun Dio: un vuoto che ad uno sguardo superficiale li fa sembrarare non antagonisti delle idolatrie attuali. Infatti da molti sono visti come delle non-religioni, delle filosofie. Ma se si può anche erroneamente parlare di filosofia per Jung, è invece paradossale e comico farlo nel caso del Buddhismo.

Quindi per la terza volta nella mia vita mi sono imbattuto, alcuni giorni fa, in questo testo di Marx. Fausto Taiten Guareschi lo ha richiamato esplicitamente per dare il titolo a una celebrazione molto significativa nella storia del Monastero Fudenji: il trentennale della fondazione, nonché 33° memoriale e 100° anniversario della nascita di Taisen Deshimaru Roshi, primo abate e fondatore del Monastero.

Fudenji, 1 marzo 2014
Non mi ha sorpreso tale scelta conoscendo la particolare apertura alle molteplici connessioni tra lo Zen e il pensiero scientifico, filosofico e religioso dell’occidente, che da sempre caratterizza il maestro Taiten e il Monastero.

Mi ha sorpreso invece la comprensione diversa che oggi ho avuto di questo brano. L’essere tornato alla poesia della tradizione ebraica mi consente di leggere oggi in una luce molto speciale questa idea di progresso come “compimento di un antico lavoro”, che il giovame Marx venticinquenne descrive con una intuizione di una profondità impressionante.

Prima di tutto egli scrive che il compimento richiede una presa di coscienza “non attraverso dogmi”, ma con un percorso di chiarificazione interiore. Oggi leggerei questo pensiero come una dichiarazione di adozione del metodo ermeneutico. Il dogma è figlio dell’idolatria (non solo di Dio, ma di qualunque altra cosa), di una obbedienza cieca nella devozione, in cui spera di trovar rifugio chi è spaventato dalla libertà. La libertà dall’idolatria mette infatti l’uomo pericolosamente innanzi alla tentazione dell’arbitrio e del relativismo nichilisti: il “nulla è vero, tutto è permesso” di cui parla Nietzsche.

La risposta di ogni autentica tradizione spirituale è invece un percorso che non pretende mai di risolvere le contraddizioni in modo definitivo, fissando le risposte in dogmi o certezze rassicuranti, siano esse religiose o politiche (cioè laiche o ideologiche). Bensì le usa per lasciar scavare le domande in profondità nel nostro cuore in un continuo dialogo ermeneutico con le molteplici interpretazioni. Perché lo scopo è la crescita spirituale dell’allievo, il suo cammino evolutivo, non la devozione a precetti e a libri pietrificati.

Nella cerimonia della battaglia del Dharma cui ho avuto l’onore e il privilegio di assistere in occasione delle celebrazioni avvenute a Fudenji, Pierre Jiun Cloutier interpretava il ruolo del maestro interrogato dai discepoli con numerose domande. La scena era preparata minuziosamente su un copione, ma occasionalmente vi sono state delle improvvisazioni quasi impercettibili per chi non conosce la speciale liturgia. Liturgia e teatro in questo contesto si rivelano termini interscambiabili proprio in quanto la situazione mette in atto, ovvero mette in scena, un nodo archetipico profondissimo dell’esperienza umana.

Le domande e le risposte cui ho assistito sono difficili da ricondurre per me a un pensiero noto. Come i Kōan, avevano un sapore evocativo o mistico, come oracoli o versi poetici. La parola si dava in modo epifanico e poietico, con una modalità che volutamente sfugge a una comprensione come mero riconoscimento. La liturgia si dispiegava come una danza che non vuole narrare una storia o illustrare un concetto, bensì sedurci e aprire un varco nelle nostre certezze, lasciarci con una sete di domande che ci scavi nel cuore.

Aggiungo a questo punto, per completezza, che la parola תשובה (teshuva) in ebraico significa anche: risposta a una domanda, soluzione. Significato che in questo contesto non appare casuale, bensì foriero di ulteriori sottili implicazioni: penso al Satori cui si perviene cercando la risposta a un kōan, e all’esperienza cristiana della conversione, già messe in relazione da Alan W. Watts (Lo Zen, 1958).

Credo che lo studio della תורה (Torah) come la lectio del Vangelo (e forse si può dire lo stesso per gli altri testi sacri) dovrebbero sempre lasciarci in questo medesimo stato. Poiché è solo così che siamo adeguatamente stimolati a portare a compimento “i pensieri del passato”. Un compito cui non possiamo venire meno, poiché nel Talmud si dice che “Non hai la responsabilità di finire l’opera, ma neanche la libertà di sottrartene” (Mishnà Avot 2,16). Un compito che si traduce nell’appropriarsi di quei pensieri del passato, poiché come scrive Haim Fabrizio Cipriani “la Torà non è un libro, bensì il risultato dell’incontro fra questo testo bagnato di eternità e l’intelletto dell’essere umano che, per un breve momento, la fa sua” (Cammina davanti a me, 2010).

Questo processo è possibile grazie al discepolato, che secondo il Messia si attua “rimanendo nella parola” che è trasmessa dal maestro:
“Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. (Gv 8,31-32)
L’espressione "rimanete nella mia parola" mi tornava alla mente mentre assistevo alla liturgia della Battaglia del Dharma. Essa è al quanto inusuale e richiede almeno un tentativo di chiarificazione. Per cavarsi d’impaccio alcune traduzioni riportano “rimanete fedeli a” compiendo una illecita alterazione del senso. Il versetto parla infatti di un “rimanere in” che, ancor più stranamente, precede la conoscenza della verità (e la conseguente libertà).

Conoscenza della verità (chiarificazione della coscienza mistica) e libertà (da ogni forma di idolatria) sono collocate entrambe in un futuro non precisato, o meglio escatologico, poiché l’accoglimento di esse nella loro pienezza va oltre le nostre possibilità. Per questo anche a Pasolini forse suonarono temerarie le parole di Marx che scriveva “gli manca solo di prendere coscienza, per possederla veramente” (una prospettiva fortemente hegeliana), e le sostituì delicatamente con tre puntini di sospensione.

Il fatto che “rimanere nella parola” preceda la conoscenza della verità in questo brano del Vangelo, può essere compreso alla luce di un passo fondamentale della Torah: "Tutto ciò che il Signore ha detto, lo eseguiremo e lo ascolteremo" (Esodo 24,7). Paolo De Benedetti scrive infatti a proposito che "bisogna innanzitutto eseguire la Torà, perché il capire la Torà nasce come effetto dell'eseguirla" (Introduzione al giudaismo, 1999).

Rimanere nella parola non è quindi capire con la mente, ma stare dentro, abitare la parola come se essa fosse un luogo, uno spazio fisico in cui dimorare. Credo che ciò stia ad indicarci che la parola debba essere vissuta con il proprio corpo, messa in atto, incarnata. E il compimento del nostro cammino spirituale (Dō, Halakah) avviene come conseguenza di questa ortoprassi concreta, fisica: quando la parola (il Dharma, la Torah, “i pensieri del passato”, la poesia della tradizione) si fa carne nell’uomo.

Per quanto bizzarro e stravagante possa sembrare a molti, questo significa per me oggi “portare a termine l’antico lavoro” di cui parlava Marx.

giovedì 14 novembre 2013

La Preghiera del Signore

Il testo seguente è la traduzione integrale di una voce della Jewish Enciclopedia (un’opera del 1906 i cui articoli sono ancora ritenuti di grande valore) reperibile in originale al seguente URL:
http://www.jewishencyclopedia.com/articles/10112-lord-s-prayer-the

La Preghiera del Signore


Nome dato dal mondo cristiano alla preghiera che Gesù insegnò ai suoi discepoli (Matteo 6;9-13, Luca 11;1-4). Secondo Luca l’insegnamento di tale preghiera fu suggerito da uno dei discepoli di Gesù che, vedendolo stare in comunione con Dio nella preghiera, gli chiese di insegnare anche a loro a pregare, come Giovanni il Battista che similmente aveva insegnato ai suoi discepoli un certo modo di pregare. Ovviamente, quindi, la seconda era di carattere simile. Da fonti Talmudiche parallele (Tosef., Ber. iii. 7; Ber. 16b-17a, 29b; Yer. Ber. iv. 7d) si può apprendere che era consuetudine tra i maestri importanti recitare brevi preghiere proprie in aggiunta alle preghiere tradizionali; e ci sono infatti alcune somiglianze notevoli tra queste preghiere e quella di Gesù.

Come le seguenti citazioni dalla Versione Riveduta mostrano, la preghiera in Luca è più breve che in  Matteo, dalla quale essa differisce anche in talune espressioni. Probabilmente entrambe erano in circolazione tra i primi cristiani; quella di Matteo, comunque, è di origine posteriore, come è mostrato oltre:

Matteo

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome
Venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà anche in terra come è fatta in cielo.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano [In Greco: assegnato o necessario]
Rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori;
E non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno
[Aggiunta in molti manoscritti: A te sia il regno, la potenza e la gloria, per sempre. Amen.]

Luca

Padre, sia santificato il tuo nome;
Venga il tuo regno;
Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano [assegnato];
E perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore;
E non ci esporre alla tentazione

La preghiera è una meravigliosa combinazione  o selezione di formule di preghiera in circolazione negli ambienti Assideani [n.d.t.: partito politico ebraico che si oppose sia all'Ellenismo che alla rivolta dei Maccabei]; e non c’è nulla in essa che esprima il credo cristiano, cioè che il Messia sia arrivato nella persona di Gesù. Al contrario, la parte iniziale e principale è una preghiera per la venuta del regno di Dio, esattamente come è il Kaddish [n.d.t.: una delle più antiche peghiere ebraiche], con cui essa deve essere confrontata per poter essere profondamente compresa.

Forma Originale e Significato


L’invocazione "Padre Nostro" = "Abinu" o Abba (quindi in Luca semplicemente "Padre") è comune nella liturgia Ebraica (vedi nella Shemoneh 'Esreh [n.d.t.: preghiera pluriquotidiana detta anche Amidah], la  quarta, quinta e sesta benedizione, e confronta specialmente con la preghiera rituale del Nuovo Anno "Nostro Padre, nostro Re! Dischiudi presto a noi la gloria del Tuo Regno"). Più frequente nei circoli Assideani era l’invocazione "Nostro Padre che sei nei cieli" (Ber. v. 1; Yoma viii. 9; Soṭah ix, 15; Abot v. 20; Tosef., Demai, ii. 9; e altrove: "Yehi raẓon mi-lifne abinu she-bashamayim," [n.d.t.: “Sia fatta la tua volontà padre nostro che sei nei cieli”] e spesso nella liturgia). Un confronto con il Ḳaddish ("May His great name be hallowed in the world which He created, according to His will, and may He establish His Kingdom . . . speedily and at a near time" [n.d.t.: Il Suo eccelso nome sia santificato nel mondo che Egli creò, secondo la Sua volontà, ed Egli regni nel Suo dominio . . . sia presto e tra breve]; si veda Baer, "'Abodat Yisrael," p. 129, nota), con lo Sabbath "Ḳedushshah" ("Mayest Thou be magnified and hallowed in the midst of Jerusalem . . . so that our eyes may behold Thy Kingdom" [n.d.t.: Possa Tu essere glorificato e santificato nel mezzo di Gerusalemme … in modo che i nostri occhi possano contemplare il Tuo Regno]), e con il "'Al ha-Kol" (Massek. Soferim xiv. 12, e libro di preghiera: "Magnified and hallowed . . . be the name of the supreme King of Kings in the worlds which He created, this world and the world to come, in accordance with His will . . . and may we see Him eye to eye when He returneth to His habitation" [n.d.t.: Sia magnificato e santificato . . . il nome del supremo Re dei Re nei mondi che Egli creò, questo mondo e il mondo a venire, secondo la Sua volontà . . . e ci sia dato di vedere Lui faccia a faccia quando Egli ritornerà alla sua dimora]) mostra che le tre espressioni, "Sia santificato il Suo nome," "Venga il suo Regno," e "Sia fatta la sua volontà, come in cielo così in terra," originariamente esprimevano una sola idea, — la richiesta che il regno Messianico si attuasse velocemente, pur sempre secondo la volontà di Dio. La santificazione del nome di Dio nel mondo fa parte dell’instaurazione del Suo regno (Ezech. xxxviii. 23), mentre le parole "Sia fatta la tua volontà" si riferiscono al tempo della venuta, nel senso che solamente Dio Stesso conosce il momento del suo "divino volere" ("raẓon" [n.d.t.: “volontà”]; Isa. lxi. 2; Sal. lxix. 14; Luca ii. 14).

Il problema per i seguaci di Gesù era trovare una forma adeguata per questa particolare richiesta, non potendo essi, come i discepoli di Giovanni e il resto degli Esseni, pregare "Venga presto il Tuo Regno" stante il fatto che per loro il Messia era apparso nella persona di Gesù. La forma riportata come quella che è stata raccomandata da Gesù è piuttosto vaga e indefinita: "Venga il Tuo Regno"; e gli esegeti del Nuovo Testamento la spiegano come riferita alla seconda venuta del Messia, il tempo della perfezione del regno di Dio (cfr. Luca xxii. 18). Nel corso del tempo l’interpretazione della frase “Sia fatta la Tua volontà” è stata estesa nel senso della sottomissione di tutto alla volontà di Dio, al modo della preghiera di R. Eliezer (1° sec.): "Do Thy will in heaven above and give rest of spirit to those that fear Thee on earth, and do what is good in Thine eyes. Blessed be Thou who hearest prayer!" [n.d.t.: Sia fatta la Tua volontà nell’alto dei cieli e sia data la pace dello spirito a coloro che Ti temono sulla terra, e sia fatto ciò che è buono ai Tuoi occhi. Sia benedetto Tu che esaudisci la preghiera!] (Tosef., Ber. iii. 7).

Relazione con l’Attesa Messianica


Anche il resto della preghiera è in stretta relazione all’attesa Messianica. Esattamente come dice R. Eliezer (Mek.: "Eleazar of Modin"): "Colui che creò il giorno creò anche le sue provviste; pertanto colui che, avendo cibo sufficiente per il giorno, dice: 'Cosa mangerò domani?' è da considerare uomo di poca fede come furono gli Israeliti con il dono della manna" (Mek., Beshallaḥ, Wayassa', ii.; Soṭah 48b), così Gesù dice: "Non datevi pensiero per la vostra vita, per ciò che mangerete … o berrete… gente di poca fede … cercate prima il Regno di Dio ... e queste cose vi saranno date in aggiunta" (Matteo. vi. 25-34; Luca xii. 22-31; cfr. anche Simeon b. Yoḥai, Mek. l.c.; Ber. 35b; Ḳid. iv. 14). Essendo così la fede il prerequisito di coloro che aspettano il tempo Messianico, diventa per essi necessario pregare, con le parole di Salomone (Prov. xxx. 8, Hebr.; cfr. Beẓah 16a), "Facci avere il pane necessario" ("leḥem huḳḳi"), cioè il pane di cui abbiamo bisogno quotidianamente.

Essendo il pentimento un altro prerequisito della redenzione (Pirḳe R. El. xliii.; Targ. Yer. and Midr. Leḳah Ṭob to Deut. xxx. 2; Philo, "De Execrationibus," §§ 8-9), una preghiera per il perdono dei peccati è altresì richiesta a questo proposito. Ma questo punto veniva posto in particolare rilievo dai saggi Ebrei di un tempo. "Forgive thy neighbor the hurt that he hath done unto thee, so shall thy sins also be forgiven when thou prayest," [n.d.t.: Perdona al prossimo l’offesa che ti ha fatto, così che anche i tuoi peccati siano perdonati quando pregherai] dice Ben Sira (Ecclus. [Sirach] xxviii. 2). "A chi è perdonato il peccato? A colui che perdona l’offesa" (Derek Ereẓ Zuṭa viii. 3; R. H. 17a; vedu anche Jew. Encyc. iv. 590, s.v.Didascalia). Concordemente Gesù disse: "Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate; affinché il Padre vostro, che è nei cieli, vi perdoni le vostre colpe" (Marco xi. 25, R. V.). Era questo precetto che suggeriva la formula "E rimetti a noi i nostri peccati ["ḥobot" = "debiti"; l’equivalente di "'awonot" = "peccati"] come anche noi li rimettiamo a coloro che hanno peccato ["ḥayyabim" = "quelli che sono indebitati"] verso di noi."

Direttamente connessa a ciò è anche la preghiera "E non condurci in tentazione." Questo si trova anche nella preghiera Ebraica del mattino (Ber. 60b; cfr. Rab: "Un uomo non deve mai metersi nella tentazione come fece Davide, dicendo 'Esaminami, o Signore, e mettimi alla prova' [Sal. xxvi. 2], e cadde in errore" [Sanh. 107a]). E poiché il peccato è l’opera di Satana (James i. 15), così recita la preghiera finale "Ma liberaci dal maligno [Satana]." Questo, con alcune varianti, è il tema di molte preghiere Assideane (Ber. 10b-17a, 60b), "il maligno" essendo ammorbidito nel "yeẓer ha-ra'" = "desiderio maligno," e "cativa compagnia" o "cattiva sorte"; così parimenti "il maligno" nel Padre Nostro è stato in seguito riferito alle cose cattive (vedi i commenti a questo passo).

La dossologia aggiunta in Matteo, di seguito in molti manoscritti, è una porzione di I Cronache xxix. 11, ed era il canto liturgico con cui il Padre Nostro  si concludeva in Chiesa; si trova anche nel rito Ebraico, l’intero verso essendo cantato all’apertura della “Ark of the Law” [n.d.t.: arco solitamente presente nelle Sinagoghe, in cui sono custoditi i rotoli della Torah].
Ad una analisi approfondita diventa evidente che i versi di chiusura, Matteo vi. 14-15, si riferiscono unicamente alla preghiera per il perdono. Ne consegue che il passo originale era identico a quello di Marco xi. 25; e la Preghiera del Signore nella sua interezza è una inserzione posteriore in Matteo. E’ possibile che il tutto provenisse dalla "Didache" (viii. 2), che nella sua forma originale Ebraica avrebbe potuto contenere la preghiera esattamente come “i discepoli di Giovanni” erano soliti recitarla.

Bibliografia:


  • F. H. Chase, The Lord's Prayer in the Early Church, in Texts and Studies, 3d ed., Cambridge, 1891;
  • Charles Taylor, Sayings of the Jewish Fathers, 1897, pp. 124-130;
  • A. Harnack, Die Ursprüngliche Gestalt des Vaterunser, in Sitzungsberichte der Königlichen Academie der Wissenschaften, Berlin, 1904.



giovedì 18 luglio 2013

Un cuore che interpreta

In effetti dopo il commento chiarificatore di Doron mi rendo conto che è bizzarra e temeraria l'idea di tradurre "cuore senziente" quello che solitamente viene tradotto come cuore che comprende (intelligente), docile (obbediente), che ascolta.

Ne approfitto per precisare che non è mia ambizione dare una traduzione con un qualche valore filologico o esegetico (non ne ho competenza). La mia è una lettura spirituale e soggettiva, che si accosta alle tante possibili, più o meno appropriate, con la sola pretesa di condividere la passione per il testo biblico.

Riporto qui una riflessione ulteriore su cui stavo ragionando nelle scorse settimane, proseguendo sulla scia di quella curiosità iniziale a proposito dello shemà. Forse con essa posso descrivere meglio le suggestioni da cui sono stato sedotto.

Ho trovato infatti nel testo "501 Hebrew verbs" di Shmuel Bolozky, i seguenti quattro verbi derivanti dalla radice ש.מ.ע

  • לשמוע (lishmoa) = hear, listen, consent, understand
  • להישמע (leishama) = be heard, be listened to, obey
  • להשתמע (leishtamea) = be heard, be understood, be interpreted
  • להשמיע (leashmia) = make heard (by playing sound), play (music, song), sound, voice, proclaim, summon

Mi sembra di poter dire che la radice contenga (almeno) questi valori semantici:

  • ascoltare o sentire
  • obbedire, fare attenzione a (osservare)
  • comprendere o interpretare
  • far sentire, suonare (interpretare)

Tutti questi valori semantici possono trovare una sorprendente risonanza nell'immagine (abbastanza biblica) di un cuore che prima sente o ascolta, poi obbedisce mettendo in pratica la Parola, di conseguenza arriva a comprenderla (un ascoltare o sentire più profondamente) e quindi solo alla fine di questo percorso spirituale  può veramente interpretarla, che vuol dire farsi attore, interprete di una partitura, strumento, per annunciarla, farla risuonare e sentire agli altri.

Questo è anche un caso esemplare di ciò che mi affascina irresistibilmente della lingua ebraica: la sua profonda ricchezza e densità semantica.