lunedì 30 gennaio 2017

Il Tetralemma e il Talmud

L'articolo seguente è apparso su "Zenite Zen Notiziario" (Vol 23 n. 3-4 inverno 2016 - inverno 2017).

Il Tetralemma e il Talmud

Leggere il Vangelo in un monastero Zen

Colui che risiede in cielo ride. 
(Salmi 2,3)

Quando ho sentito per la prima volta parlare del Tetralemma è stato dal maestro Taiten Guareschi abate del monastero Zen Soto Fudenji. Ne sono rimasto particolarmente colpito, dato che la logica mi ha sempre affascinato, avendo coltivato da giovane una vera passione per la matematica e la filosofia.

Da quel poco che ho potuto capire l’argomentazione chiamata Catuskoti in Sanscrito appartiene alla tradizione logico-epistemologica dell’India, ed è stata poi adottata dalla logica Buddhista. Molto brevemente una qualsiasi proposizione non può essere ritenuta vera, non può essere ritenuta falsa, non può essere ritenuta al contempo vera e falsa, e infine non la si può neanche ritenere al contempo né vera né falsa. In sostanza viene negata ogni possibilità di fare affermazioni certe, come anche dalle nostre parti ritenevano Gorgia, Sesto Empirico e tutti gli scettici fino a Hume e Nietzsche. Si è messi di fronte alla necessità di confrontarsi con il vuoto lasciato da questa quadruplice negazione.

Il punto delicato è che una qualunque proposizione in sé non fornisce nessuna informazione circa la realtà, bensì si limita a porre una domanda implicita sulla sua veridicità o meno. Bisogna distinguere non solo tra una proposizione e il suo contrario, ma anche tra l’affermazione e negazione di quella proposizione e del suo contrario. Perché negare una proposizione non significa affermare il suo contrario. Solitamente nel linguaggio comune non vengono fatte queste distinzioni sottili tra un enunciato e la sua affermazione, e tra la sua negazione e l’affermazione del contrario. Tuttavia sono cruciali, dato che aprono la possibilità alle proposizioni contemporaneamente vere e false o né vere né false.

Da notare che le quattro alternative, anche se prese nella loro forma positiva, non risultano compatibili con la logica formale (la terza e la quarta sono di per sé auto-contraddittorie). Tuttavia sembrano emergere spontaneamente all’interno delle logiche “anomorfiche”. Si tratta di nuove forme della logica proposte recentemente per spiegare alcuni paradossi in cui gli scienziati si imbattono nel tentativo di spiegare la realtà subatomica della materia (Rafael D. Sorkin, “To What Type of Logic Does the Tetralemma Belong?”, 2010). Si capisce forse meglio l’interesse di Erwin Schrödinger, uno dei padri della meccanica quantistica, per la filosofia Vedanta negli ultimi anni della sua vita, che lo portò a considerare la coscienza individuale come manifestazione di una coscienza unitaria che pervade l’universo (Erwin Schrödinger, “Che cos’è la vita?”, 1944).

Questi aspetti li ho approfonditi solo recentemente, quando l’argomento del Tetralemma mi è tornato in mente imbattendomi in una storiella tipica dell’umorismo ebraico:
"... Un giovanotto ebreo, figlio di una di quelle famiglie secolarizzate, laiche, progressiste, moderne, dopo la laurea in logica e dialettica socratica, vuole darsi un'infarinatura di cose ebraiche. Si sa... fa cosi chic!
Si reca dunque da un grande rabbino e gli dice: "Rabbino, vorrei arrotondare la mia cultura con un po' di ebraismo. Mi darebbe qualche lezioncina?"
"Capisco giovanotto", risponde il rabbino, "ma tu lo hai studiato nostro Toyre? Il Bibbia nostro intendo, il Talmud?"
"Andiamo rabbino! Io sono laureato in Logica e Dialettica socratica! Non so se mi spiego!"
"D'accordo figliolo qvesto è un bella cosa, ma "leshon ha Kodesh" il nostro lingua santa, ebraico conosci? E aramaico?"
"Rabbino, lei mi sta solo facendo perdere tempo. Mi faccia un test! Mi metta alla prova per vedere se sono all'altezza! "
"Come tu lo vuoi figliolo".
Il rabbino alza di scatto due dita proprio davanti agli occhi del baldanzoso giovane e...
"Attento giovanotto! Due uomini scendono del stesso camino: uno ce l'ha il faccia sporca e l'altro ce l'ha il faccia pulita, chi si lava il faccia?"
"Hahaha! Ma rabbino, questa è una domanda per bambini deficienti! È evidente. Quello con la faccia sporca".
"Sbagliato figliolo. Qvando qvello con il faccia sporca vede che l'altro ce l'ha il faccia pulita, pensa di avere il faccia pulita e non si lava il faccia. E qvello con il faccia pulita che vede che l'altro ce l'ha il faccia sporca, pensa che ci ha il faccia sporca e qvindi si lava il faccia".
"Ah!... Certo rabbino! Come ho potuto cadere in una trappola cosi banale. La prego, mi sottoponga ad un altro test per favore, comincio a capire... Molto, molto sottile! "
"Va bene figliolo, come tu lo vuoi, non ce l'è problema! Attento "
Di nuovo il rabbino fa scattare le due dita in alto : "Due uomini scendono del stesso camino : uno ce l'ha il faccia sporca e l'altro ce l'ha il faccia pulita, chi si lava il faccia?"
"Rabbino, non sono mica scemo, lo abbiamo già detto. Quello con la faccia pulita".
"Sbagliato figliolo. Qvello con il faccia sporca vede che l'altro ce l'ha il faccia pulita, pensa avere il faccia pulita e non si lava. Qvello con il faccia pulita vede l'altro con il faccia sporca, pensa avere il faccia sporca e si lava il faccia . Ma... qvando qvello con il faccia sporca vede che qvello con il faccia pulita si lava il faccia, pensa di doversi anche lui lavare il faccia. Qvindi tutti e due... si lavano il faccia".
"Ah! mmm... certo ...il ribaltamento dialettico ...molto arguto... Vede rabbino, sono un po' freddino... La prego, mi faccia un'altra domanda".
"Come tu lo vuoi figliolo, non ce l'è problema".
Ancora una volta il rabbino alza le due dita di scatto : "Molto attento, ragazzo! Due uomini scendono del stesso camino : uno ce l'ha il faccia sporca e l'altro ce l'ha il faccia pulita, chi si lava il faccia?"
"Rabbino, insomma non mi esasperi! Non lo abbiamo appena detto? Sono totalmente d'accordo con lei. Tutti e due si lavano la faccia! "
"Sbagliato figliolo. Vedi, qvando qvello con il faccia sporca vede qvello con il faccia pulita, pensa avere il faccia pulita e non si lava il faccia. Cosi, qvando qvello con il faccia pulita vede che l'altro con il faccia sporca non si lava la faccia, pensa anche lui non ce l'ha nessun ragione per lavarsi il faccia. Qvindi... nessuno dei due si lava il faccia".
Lo studente è quasi a pezzi ma per non essere umiliato dice: "Adesso ho capito, rabbino, ne sono sicuro. Riconosco di essere stato presuntuoso, ma lei non deve negarmi un'ultima domanda. La scongiuro! "
"Va bene, come tu lo vuoi figliolo, come lo vuoi. Allora vediamo..."
Il rabbino immancabilmente fa scattare in su le due dita e...: "Molto, molto attento mio caro giovanotto! Due uomini scendono del stesso camino, uno ce l'ha il faccia sporca e l'altro ce l'ha il faccia pulita. Chi si lava il faccia?"
"Pietà di me, rabbino! Me l'ha appena detto e io ne convengo assolutamente, non insista! Nessuno dei due. Nessuno dei due si lava la faccia. Non è cosi?"
"Sbagliato figliolo. Senti figliolo, ma come lo puoi pensare che due uomini scendono del stesso camino, ce l'hanno uno la faccia sporca e l'altro la faccia pulita! L'intera qvestione è un 'idiozia! Passa il tua vita a rispondere a stupide qvestioni del tuo dialettica... e vedrai cosa capirai di ebraismo! " (Moni Ovadia, "L'ebreo che ride" , 1998, Giulio Einaudi Editore)
Questa storia non cessa mai di farmi riflettere. Prima di tutto perché non posso non riconoscervi me stesso quando ero giovane, figlio di questa società secolarizzata, laica, progressista, moderna. E perché anche io da giovane sentivo il bisogno di trovare un maestro che mi insegnasse qualcosa di più o di diverso da quello che anche i miei migliori insegnanti nelle scuole non avevano potuto darmi.

Poi perché da alcuni anni, essendo un eterno studente, mi sto dedicando alla studio della lingua ebraica, che mi consente di avvicinarmi alle radici della mia fede, alla cultura in cui è nato e ha predicato Yeshua, il rabbino che noi cristiani chiamiamo Gesù. Nutro infatti la speranza di trovare in queste radici la linfa vitale necessaria a testimoniare il Vangelo in questa epoca.

Infine anche perché prima di ritrovare la fede cristiana, per molti anni sono stato agnostico, e attratto come molti dalla spiritualità orientale. Per cui leggendo questa storiella non posso fare a meno di associarla anche alle 101 storie Zen, e allo scetticismo verso le trappole della logica e del linguaggio, che fanno preferire il racconto aneddotico o midrashico, il dialogo e la parabola al linguaggio assertivo.

Bene, arriviamo dunque al Vangelo: c’è un passo a tutti noto, quello del giovane ricco, nel quale si narra di un analogo tentativo di affiliazione senza molto successo. Anche qui un giovane va da un maestro, come avviene in molte storie della tradizione Zen e di quella ebraica. Proviamo allora a leggere adesso questo brano come se non l’avessimo mai letto prima, con uno sguardo nuovo e alla luce di tutti questi stimoli.
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"». Ed egli rispose: «maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù». Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!» I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio». Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?» Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio». (Marco 10:17-27)
“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.”
L'aggettivo buono sembra un semplice complimento, ma è interessante il fatto che Gesù non lo accoglie benevolmente, anzi lo prende come qualcosa di non gradito. I ricchi di ogni tempo sono soliti lusingarsi reciprocamente con titoli onorifici e convenevoli (anche solo di facciata), ma qui pare proprio che la cosa a Gesù non garbi affatto. La sua risposta sembra quasi un modo piuttosto ruvido per mettere subito le cose in chiaro: "guarda che qui non sei nel tuo ambiente ovattato!". Ed è anche ciò che ho visto spesso fare dal maestro Taiten.

Quindi lo mette subito alla prova, con una domanda precisa sulla Torah e i precetti, e lui risponde maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù. Qui Gesù capisce che il giovane sta cercando qualcosa di più, in lui trova un desiderio in eccesso, per cui “guardatolo, l’amò”. Questo è lo sguardo di Dio che si specchia nell’uomo fatto a sua immagine e somiglianza, e perciò lo ama come un padre ama il figlio in cui riconosce e ritrova sé stesso. Ma è anche lo sguardo del maestro che si innamora dell’allievo riconoscendo in lui un desiderio sincero, un rispecchiamento della propria ricerca di verità e sapienza. Mi vengono in mente le parole della mia insegnante di filosofia che vedeva in me ciò che lei chiamava la “fame di assoluto”. E poi questo rispecchiamento tra padre e figlio, tra maestro e allievo, è simile a quello dei due uomini che scendono dal camino: ognuno necessita del volto dell’altro in cui specchiarsi per venire a capo del proprio enigma esistenziale.

La scena narrata in questo passo del Vangelo è una rappresentazione tipica di quella attività che è alla base della tradizione orale. Un maestro si trova con degli allievi, si fa riferimento a un testo, in questo caso la Torah, e si fanno delle domande. Ognuno mette in gioco sé stesso nella relazione con il testo e con gli altri, sotto la guida del maestro (e Fudenji è uno dei rari luoghi in cui ciò avviene ancora, perché è guidato da un maestro). Questo per la tradizione ebraica è la Torah orale, cioè la Torah incarnata, che si fa viva nella storia di ognuno di noi, nella misura in cui cerchiamo di applicarla nella nostra vita quotidiana. E per la tradizione ebraica la Torah orale conta di più della Torah scritta! Forse anche per questo Gesù non ha lasciato nulla di scritto.

Per capire meglio che ruolo abbia un maestro nella tradizione ebraica, dato che Gesù è uno di loro è interessante fare riferimento a questo brano di Maimonide:
[l’onore e il rispetto dovuto da un allievo] al maestro supera quello dovuto al padre. Il padre lo conduce nella vita di questo mondo, mentre il maestro, che gli insegna la saggezza, lo conduce nella vita del mondo a venire. (Maimonide, Mishneh Torah - Il libro della conoscenza/Le leggi dello studio della Torah cap. 5,1)
“Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”
Gesù vede che al giovane “manca” qualcosa. Ma il paradosso è che questa mancanza è mancanza di vuoto, è una doppia negazione molto Zen, è mancanza di uno svuotamento, è la kenosis cristiana. Si tratta di quel processo interiore che porta a svuotarsi del proprio egocentrismo, per diventare strumento della volontà trascendente e abbandonarvisi senza paura. A volte penso che per una donna che ha provato l’esperienza del parto questa idea ha un corrispettivo che a me non è dato di comprendere.

“È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago”
Il cammello di cui parla Gesù potrebbe essere un errore di traduzione della parola aramaica גמלא gamal che può significare sia 'cammello' che 'corda' (da cui potrebbe venire forse anche l’antico termine marinaro “gomena”). Una grossa fune non può certo passare per la cruna di un ago se resta così come è fatta. Tuttavia sarebbe possibile disfarla, scioglierne ogni singola fibra, fino a ottenerne un filo sempre più sottile, capace infine di passare anche dalla cruna dell’ago. L’immagine diventa più comprensibile e applicabile, e rappresenta anche molto bene il processo di riduzione, lo spogliarsi di ogni bene suggerito al giovane ricco, la kenosis.

“Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.”
Questa tristezza ci deve far pensare. Perché in questa tristezza si rispecchia anche il sentimento che pervade la nostra società opulenta, e che è particolarmente evidente quando si mettono semplicemente a confronto i nostri volti con il sorriso di chi vive ai margini nei paesi poveri del pianeta, dove la vita non è ancora stata inglobata dalla prospera tecno-finanza.

A proposito della tristezza, del sorriso e della vita del mondo a venire, Sira Fatucci scrive:
nel Talmud e precisamente nel trattato di Taanit, (22A) è narrato che mentre Elia si trova nel mercato di Be-lefet insieme a Rabbì Berokà, quest’ultimo gli chiede (in quello che presumiamo essere un luogo assai affollato) chi delle persone che sono lì avrà parte nell’Olam Ha-bà, il mondo a venire. Dopo avere indicato una certa persona e aver discusso su di essa Elia indica solo altri due personaggi: sono due “Badhanim”, persone che vanno in giro a divertire e rasserenare chi è triste. E che intervengono quando vedono due persone in lite tra di loro: vanno lì e mettono la pace. [...] Pensiamo che il mondo sia pieno di persone tristi perché va tutto per il verso sbagliato, ma il grande insegnamento di Nachman di Brezlaw (un grande teologo e rabbino chassidico), è che va loro tutto per il verso sbagliato perché sono tristi! (Sira Fatucci su moked/מוקד il portale dell'ebraismo italiano)
Di fronte alla nostra debolezza e fragilità, se ci facciamo prendere dalla paura, ci aggrappiamo alle cose, alle persone e agli idoli del nostro tempo, in cerca di salvezza. Ma così facendo la nostra relazione con le cose, le persone e Dio diventa una relazione di possesso e di potere, nella quale siamo tutti contro tutti, soli e impauriti. Per questo il giovane se ne va triste: ha paura di mollare la presa.

Il giovane vorrebbe dunque “ereditare” la vita eterna. E ne parla come di una eredità, perché la logica a cui è abituato è quella del possesso. Ma cosa è la vita eterna (חיי עולם)? Qualcosa che possiamo possedere? La perpetuazione di questa vita? O la vita del mondo a venire di cui parlano Elia e gli antichi Rabbini e in cui può condurci solo un maestro?

Mentre il giovane desidera “ereditare la vita eterna”, i discepoli dal canto loro desiderano più semplicemente di “essere salvati”. Si può forse cominciare a intuire come sia difficile da perseguire o anche solo da comprendere la risposta provocatoria di Gesù, che ci invita tutti a entrare nel regno di Dio per la via maestra, quella del dono, della kenosis e dello svuotamento di sé ricercando una salvezza che sia oltre la mera esistenza prospera nel benessere. Una via che richiede il superamento dell’illusione di una coscienza individuale per entrare in comunione con la coscienza unitaria che pervade l’universo (per riprendere l’immagine a me cara di Erwin Schrödinger) e che gli ebrei indicarono con il Tetragramma ineffabile (יהוה, il nome impronunciabile dell’Altissimo). Una via che sembra quantomeno parallela a quella dello Zen.

venerdì 20 gennaio 2017

Bianchi e neri

Una sera d’estate del 1977 un bianco allampanato entrò in un locale ad Harlem per ascoltare musica Jazz. Andò al bancone e chiese da bere. Erano gli anni peggiori della storia di Harlem, diventato un quartiere povero e decadente, pieno di criminalità. Il barista, un nero, gli fece notare che non era prudente per un bianco stare in quel locale frequentato solo da neri. L’avventore lo guardò negli occhi e con sfrontatezza gli rispose: “Quanti neri ci sono qui, cinquanta? Beh, senti, io vivo in Nigeria da anni, in mezzo a cinque milioni di neri, come faccio ad avere paura di questi?” Il barista sorrise e gli servì il suo whiskey liscio.

Quel bianco era arrivato a Milano nel 1954, a dodici anni, con una famiglia di emigranti e le valigie di cartone. Vivendo un’adolescenza da escluso si era innamorato dei neri e della loro musica, al punto da decidere, a ventisei anni, di andare a vivere in Africa. Non era in cerca di una nuova patria, bensì semmai di un posto in cui poter essere ancor più interamente, completamente straniero.

Martedì 17 gennaio 2017, in occasione della giornata per il dialogo interreligioso ebraico cristiano, nella Sinagoga di Milano ho ascoltato Rav Arbib dire quanto segue:
La parola shalòm in ebraico deriva dalla radice shalèm che vuol dire integro, completo. Si può pensare che integro significhi “Io sono completo e integro e gli altri devono adattarsi a me”. È l’idea che è alla base di ogni fondamentalismo. Ma shalèm può voler dire anche l’esatto contrario. Può significare che si aspira a un’integrità avendo la coscienza di non essere integri, di non esser completi.
Come faceva quel bianco a stare in mezzo ai neri senza avere paura? L’ho sempre saputo, perché l’ho appreso osservandolo, ma senza mai saperlo spiegare agli altri. Dopo quaranta anni credo di aver trovato le parole per dirlo, proprio in questa aspirazione a una integrità. Senza di essa non si desidera incontrare chi è diverso, al contrario si tende a frequentare solo chi ci somiglia, si vive in un ghetto.

Ma paradossalmente la coscienza di non essere integri, a differenza dell’illusione di esserlo, non comporta maggior fragilità. Al contrario, senza di essa non ci si può sentire abbastanza forti della propria identità, al punto da reggere il confronto. Abbastanza da superare la naturale ostilità degli altri, se necessario anche con sfrontatezza.