giovedì 11 agosto 2016

Pregarsi

Da non credente pregare è una azione incomprensibile: veramente qualcuno ci ascolta? E se anche ascoltasse, farebbe ciò che chiediamo?

Ma da non credente il mio dubbio maggiore è proprio circa il gesto di chiedere. Davvero pregare è sinonimo di chiedere qualcosa a Dio?

Le prime tre invocazioni del Padre Nostro, la preghiera con cui il Maestro Yeshua ha insegnato come pregare ai suoi discepoli, non sono delle semplici richieste a Dio di compiere azioni in nostro favore.

“Sia santificato il tuo nome”. Questa è chiaramente una nostra azione nei suoi confronti, il contrario di una richiesta.

“Venga il tuo regno”. Certo, il suo regno non è di questo mondo (Gv 18,36), ma se il regno fosse un al di là completamente separato da noi, non potrebbe “venire”. il Maestro Yeshua dice invece che quel regno è in mezzo a noi (Lc 17,21). Non è quindi di una venuta collocata nel futuro, che avrebbe poco senso invocare poiché si tratterebbe solo di attendere, ma di un’apertura possibile nel qui e ora, dei nostri cuori, del nostro spirito. Anche qui si tratta di una nostra azione di accoglienza del regno, non di una azione che noi chiediamo sia fatta da Dio.

“Sia fatta la tua volontà”. Non è certo pensabile che Dio attenda la nostra invocazione per fare ciò che Lui vuole. Anche qui si invoca una nostra azione, che consiste nel fatto che siamo noi a dover compiere il suo volere.

Se le quattro invocazioni successive contengono delle chiare richieste di azioni di Dio nei nostri confronti, non è affatto esclusa la necessità di una nostra partecipazione attiva al loro adempimento. In almeno un caso la necessità di tale partecipazione è anche esplicita: "come noi li rimettiamo".

Nel pregare si tratta quindi di impegnarsi a fare un lavoro in primo luogo su sé stessi. Per questo può apparire sorprendente il fatto che in ebraico il verbo è riflessivo: הִתפַּלֵּל (‘itpalel) che viene tradotto con il nostro verbo “pregare”, ma che letteralmente sarebbe “pregarsi”.

Si può pensare a un lavoro di torsione e apertura: mettersi nella giusta posizione, indirizzarsi verso Dio, voltarsi, che è poi anche il significato del verbo riflessivo “convertirsi”.

Appare chiaro allora come tutto ciò non debba essere confuso con una attività di semplice cura di sé, che nel migliore dei casi vorrebbe essere un esercizio di cosiddetta “meditazione”. Poiché queste attività di meditazione, oggi molto di moda soprattutto nei contesti New Age, si rivelano spesso come pratiche solo cerebrali e assai poco spirituali.

Per contro nella preghiera cristiana come nello zazen è possibile rintracciare un tipo di pratica che porta l’intelletto a scendere nel profondo del nostro cuore (inteso come il centro della nostra essenza corporea, intellettuale e spirituale), con lo scopo di ri-orientarsi.


L'accostamento dello zazen alla preghiera cristiana può sembrare ardito, ma i punti di contatto sono più profondi di quanto ci si possa aspettare superficialmente. La recitazione del rosario, come un mantra, ha uno scopo molto chiaro a chi lo pratica seriamente o anche solo ha provato ad assistervi con sguardo non pregiudizievole. Una formula ripetuta all'infinito produce un effetto di svuotamento della mente molto efficace, che ci libera dai moti interiori dell’anima, dal giogo dei desideri, dalle pulsioni e dalle intenzioni che spingono ogni nostra azione nella quotidianità, nel bene come nel male. 

Questo effetto diventa chiaro se si comincia a pensare che la preghiera per funzionare debba diventare un gesto quasi involontario e naturale, senza sforzo né intenzione, come il respiro. Ma non significa che ciò sia facile da ottenere, tutt’altro. Perché il raggiungimento di questa innaturale naturalezza, come in ogni arte, coincide con il traguardo del percorso di perfezionamento spirituale dell’allievo. 

Questa idea della preghiera è in sintonia con ciò che da molti secoli fanno alcuni monaci ortodossi, detti Esicasti, ancora presenti ad esempio sul monte Athos. Essi praticano la “preghiera del cuore” o di Gesù, che consiste nel ripetere interiormente "Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me" senza interruzione, in modo da pregare incessantemente (Lc 18,1 e 21,36; 1Ts 5,17). 

Da alcuni anni mi sto sempre più convincendo che sia la centratura su sé stessi (i propri bisogni, l’autorealizzazione) la vera origine di gran parte dei mali che affliggono l’anima. E se la solitudine può essere considerata la via maestra per correggere un orientamento errato del proprio cuore, è anche vero che essa è un abisso pronto a inghiottire chi vi si avventura in modo sprovveduto. Forse è necessario attraversare il deserto della propria solitudine, almeno una volta nella vita, ma non certo per soggiornarvi a lungo, bensì solo per sconfiggere le tentazioni che dal nostro ego traggono continuamente linfa.

Non si può soggiornare nel deserto della solitudine troppo a lungo se non altro perché non ci si salva da soli. E ciò è vero nel duplice senso di questa frase. Abbiamo bisogno degli altri, del loro aiuto, del loro esempio, del loro incoraggiamento, dell'insegnamento di un maestro. Ma abbiamo anche bisogno di farci noi strumento di salvezza per gli altri. Solo spendendo bene la nostra vita, si schiude per noi la possibilità di dare ad essa il senso e la pienezza che soli possono redimerla.

Fudenji
Anche questa dimensione orizzontale, del legame con gli altri, è palpabile fisicamente nella recitazione del rosario tanto quanto nella pratica dello zazen. Ho avuto modo di apprendere qualcosa di questo aspetto grazie al monastero Fudenji guidato dall’abate Taiten Guareschi, un luogo molto accogliente e aperto al dialogo interreligioso. Ho scoperto come sia necessario durante lo zazen, nel dojo, mantenersi in sintonia con il gruppo di persone con cui si pratica. Questo è vero non solo quando si fa la meditazione in cammino detta kin-hin (che richiede un movimento dei corpi visibilmente sincronizzati), ma anche durante quella seduta, propriamente detta zazen, che solo apparentemente, per chi la vede dall’esterno senza averla mai praticata, sembra una attività individuale.

Pregarsi è quindi una attività che si sviluppa anche in orizzontale, con gli altri, per ottenere un effetto su sé stessi nella direzione verticale di apertura verso l'alto, per riposizionarsi e dirigersi verso la sorgente di tutto, l'anima del mondo, Dio.

Per riassumere questo percorso si potrebbe dire che è necessario liberarsi dalla dipendenza (l’Egitto) e attraversare l'indipendenza (il deserto) per assaporare la pienezza della interdipendenza (la Terra Promessa). Come l’embrione che nel grembo materno secondo alcuni ripercorre gli stadi dell’evoluzione delle varie specie, così ogni figlio di Abramo è chiamato a ripercorrere, nella propria vita individuale, la storia di Israele.

E questa relazione tra il percorso individuale e quello collettivo, vissuta nei geni come nello spirito, si esprime forse nel modo più compiuto con l’attività della preghiera, dove la ricerca della perfezione individuale entra in risonanza con il cammino spirituale della comunità.