mercoledì 19 ottobre 2016

Poveri di spirito

“Beati i poveri di spirito”
Matteo (5, 3)

Questa è una di quelle espressioni che lascia il lettore con la sensazione di non aver capito fino in fondo: come se ci fosse qualcosa di più che ci sfugge. Le letture spesso si affannano a chiarire che per essere beati ci si debba fare poveri, ma che la povertà non sarebbe da intendere in senso materiale, bensì relativamente allo spirito, quindi si tratterebbe di un invito all'umiltà. Questa spiegazione non regge, per il semplice motivo che Gesù in tal caso avrebbe potuto dire semplicemente beati gli umili.

Il punto forse è che a volte non si vuole vedere ciò che è scomodo. L'uomo è da sempre attratto per lo più dal benessere materiale, quindi quando Gesù parla delle beatitudini subito l’ascoltatore si pone nell'ottica di capire cosa serve per ottenere la beatitudine, intesa come una condizione confortevole. Da qui nasce la perplessità: perché la povertà di spirito come condizione di felicità risulta un paradosso. Essere poveri, che lo si intenda spiritualmente o peggio materialmente (Luca 6,20), sembra chiaramente una disgrazia di cui è difficile sentirsi beatificati. Vale il comune detto popolare: se la ricchezza non fa la felicità, figuriamoci la miseria!

Esaminando poi il testo greco “οἱ πτωχοὶ τῶ πνεύματι” si trova che grammaticalmente il nome “poveri” (un aggettivo sostantivato) è seguito da un secondo nome “spirito” come dativo di relazione. In ebraico questa forma grammaticale si chiama “stato costrutto”: è l’equivalente delle nostre espressioni “rosso di capelli” o “alto di statura”. Solo che mentre in ebraico (che è una lingua prettamente grammaticale) si può usare con qualsiasi aggettivo o sostantivo, in italiano (che è una lingua più lessicale) non suona sempre bene. Perciò non diremmo mai che una persona è lunga di naso, ma che ha il naso lungo. Analogamente l’espressione “poveri di spirito” ci è familiare solo in quanto è una citazione evangelica, ma in italiano saremmo inclini a dire “poveri dal punto di vista spirituale” o anche “con lo spirito povero”.

Ora la povertà è molto semplicemente lo stato di bisogno, la carenza, cioè la fame. Quindi i poveri dal punto di vista dello spirito sono i bisognosi, i desiderosi, gli affamati di spirito (qui il dativo di relazione funziona bene anche in italiano), o “con lo spirito affamato”, cioè coloro che desiderano ardentemente l'esperienza spirituale dell'incontro con il trascendente, coloro ai quali la dimensione materiale sta stretta.

Peraltro una situazione materiale troppo confortevole, di agio o di ricchezza, può essere un grande freno ai traguardi spirituali, come viene rivelato nella parabola del giovane ricco (Marco 10:17-27). Essere poveri materialmente può invece aiutare a far germogliare quell’altra povertà, cioè la fame spirituale. Non è un caso se in ogni epoca e cultura la sofferenza, anche fisica, si è rivelata come un forte stimolo per le molteplici forme di evasione dai vincoli dell’esistenza: poetica, artistica, profetica, mistica. Poveri nello spirito sono dunque i cercatori del divino, i mistici, coloro che hanno fame di assoluto, fame di Dio.

Ora forse è più chiaro come l’invito di Gesù non sia ad una postura di umiltà da assumere con devozione, bensì al risveglio di un autentico e profondo bisogno di nutrimento interiore.

Beati quelli il cui spirito è affamato, perché vostro è il regno dei cieli!

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Veduta del lago di Galilea nei pressi di Cafarnao



giovedì 13 ottobre 2016

Pressurizzàti

 "Mi cliente no tiene prisa" 
Antoni Gaudì

Depressione indica il venir meno di una pressione. Ma quale è la natura di questa pressione psichica? Premere significa in prima istanza esercitare una forza su una superficie dall'esterno, quindi anche spingere a fare o a muoversi in una direzione non decisa dal soggetto. Subire una pressione dunque equivale anche ad essere manovrati: ne conseguirebbe che il depresso è malato in quanto non è più manovrato. Una suggestione etimologica può essere l’indizio di un fatto ontologico?

Un altro spunto, sempre di natura etimologica proviene dal fatto che mettere fretta si può dire anche con il termine pressare, che in centro Italia ha anche il sostantivo dialettale “pressa”, non per indicare il macchinario, bensì sinonimo appunto di fretta, proprio come l'equivalente spagnolo "prisa". In effetti il depresso è anche uno che non ha fretta. In un sistema economico produttivo che ci vuole competitivi, ingranaggi efficienti e scattanti, non avere fretta è certo un difetto da correggere, una malattia da curare.

Se la pressione invece viene dall'interno, come in un pneumatico, si può parlare ancor più propriamente di inflazione psichica. Il depresso in effetti non è un pallone gonfiato, non si crede importante, non è vanitoso né arrivista. E questo è un guaio perché in primo luogo non ha la motivazione necessaria ad essere competitivo ed efficiente, ma oltretutto non è nemmeno un consumatore facilmente manipolabile dai media perché non insegue febbrilmente un desiderio di autorealizzazione, non percepisce sé stesso come centro di attenzione cui dedicare ogni energia, su cui investire tempo e risorse.

Il depresso si lascia andare, oserei dire che forse si lascerebbe vivere se la società attorno non gli inculcasse con ogni mezzo che quel suo lasciarsi in pace, darsi tregua, mollare la presa, non è lasciarsi vivere, ma lasciarsi morire, perché l'unica vera vita degna di essere vissuta sarebbe solo quella pressurizzata.

Quindi poiché sfugge al sistema di produzione e consumo, il depresso va medicalizzato. Depressione e deflazione non a caso sono due termini anche economici, ed entrambi negativi, indicatori nefasti di una economia malata. Ma se il linguaggio medico e quello economico convergono, è forse urgente farsi domande, nutrire sospetti.


Sagrada Famìlia