giovedì 26 maggio 2016

Il corpo e la macchina

Source: tattooeasily.com
Il tatuaggio è una pratica che presuppone una relazione ben precisa con il proprio corpo. Il corpo infatti può essere visto come involucro, abito, oggetto, strumento espressivo, status symbol. Estremizzando questa posizione, non sei più il tuo corpo, ma lo abiti e lo manipoli. Non a caso la pratica del tatuaggio viene anche assimilata al piercing tra le tante espressioni della Body Modification, un movimento culturale che esiste ormai da decenni.

Nella Body Modification si manifesta anche una certa nostalgia tribale per un passato lontano, il desiderio di recuperare il primitivismo. In modo analogo ma quasi speculare si posiziona invece il movimento intellettuale del Transumanismo, una filosofia futurista che tende a modificare il corpo (e la mente) dell’uomo grazie all’uso della tecnologia, per potenziarlo e superarne i limiti. Alcuni avventurosi arrivano così a impiantarsi circuiti elettronici nella carne.

Vedere il proprio corpo come una tela su cui dipingere o un oggetto da manipolare, può sembrare una questione soggettiva, una legittima libertà che l’individuo moderno si arroga per disporre di sé come meglio crede. Tuttavia secondo la scienza un corpo vivente si distingue da un oggetto inanimato, per il fatto che la sua forma è endogena, viene cioè determinata dal suo interno. Per contro gli oggetti inanimati e gli artefatti sono plasmati da azioni esterne, umane o naturali. Qualsiasi azione di manipolazione dall'esterno del corpo presenta quindi oggettivamente i caratteri di una riduzione del vivente a un mero ente.

Un atto di trasformazione impressa dall'esterno implica un superamento e una manipolazione della forma che si configurano come una violenza. Si potrebbe dire in breve che si tratta di una violenza. Il che non vuol dire che la violenza sia sempre di segno negativo. Alcune sue espressioni sono infatti semplicemente necessarie perfino utili: come gli interventi chirurgici per la salute o tagliarsi i capelli e le unghie per adeguarsi a delle (futili) convenzioni sociali. Il punto delicato e soggettivo è dunque quando l'uso diventa abuso, e si è guidati non da costrizioni e consapevolezza bensì, talvolta, da velleità e incoscienza. Esistono soglie e limiti che è infatti necessario valicare con l'opportuna consapevolezza, mancando la quale si oltrepassa anche quel sottile confine tra l'uso e l'abuso, di sé come degli altri.

Seppure queste pratiche possano quindi apparire come una manipolazione violenta del corpo, va riconosciuto che talvolta si presentano nella luce incantevole delle opere d'arte, di modo che in questa tensione tra abuso e espressione si schiuda il fascino di una profonda provocazione.

Source: Akademie 
der Wissenschaften
Una provocazione che ha origini lontane, dato che si può risalire almeno a La Mettrie, che con la sua idea dell’uomo-macchina sembra aver influenzato in modo significativo il pensiero moderno reificante. Di fatto anche la scienza medica attuale si basa sul principio che il corpo umano sia del tutto analogo a una macchina da riparare, su cui intervenire dall’esterno manipolandone i meccanismi con i farmaci o con la chirurgia.

Un approccio, radicalmente diverso dal precedente, è quello invece della naturopatia contemporanea, che vede il corpo come una pianta, parte della natura intesa come un grande organismo, quindi qualcosa da custodire con una cura non invasiva, bensì basata su un equilibrio nell’alimentazione e nell’interazione con i fattori ambientali, dove si ha la consapevolezza che alterando un fattore, tutti gli altri ne rimangono influenzati.

La cosa curiosa è che un anno dopo aver scritto “L’homme machine”, La Mettrie scrisse un secondo trattato intitolato “L’homme plante”, forse anche lui (come accade a volte a chi si è tatuato) ebbe un ripensamento sulla sua lettura riduzionista dell'essere umano.

sabato 14 maggio 2016

Il caso non esiste




“La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;

necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende”.

Paradiso, XVII, 34-39.

Sono solito affermare che “il caso non esiste”, per cui un amico ha portato recentemente la mia attenzione su questi versi in cui Dante contrappone la contingenza alla necessità. Vi si afferma che la natura casuale delle cose mutevoli e corruttibili non contrasta con la prescienza divina di tutto ciò che ancora deve accadere, in quanto sono presenti alla coscienza eterna come in un rispecchiamento. Essendo la coscienza divina eterna, il futuro e il passato sono entrambi presenti in essa “contemporaneamente” (ad essere più esatti, per essa non hanno senso, tutto è presente), e quindi la contrapposizione tra caso e necessità perde di significato.
Dante non difende il caso contro la necessità, bensì li avversa entrambi in quanto toglierebbero libertà all’uomo, finalità alla creazione e senso trascendente alla vita. E infatti scrive (Inferno, Canto IV vv 136) di «Democrito, che 'l mondo a caso pone», mostrando in questo verso un chiaro accento critico anche verso il caso.

http://www.foliamagazine.it/un-viaggio-infernale-lincontro-con-gli-spiriti-magni/
Il castello degli “spiriti magni” dove si trova Democrito, nel IV canto dell’Inferno.Miniatura tratta dalla ‘Divina Commedia di Alfonso d’Aragona’ (XV secolo), British Library, Londra.



Invero il pensiero di Democrito è ben lontano dal porre il caso a fondamento del mondo, essendo egli il padre del determinismo materialista antico (da cui trae origine anche quello scientifico moderno). Lo stesso Democrito ci illumina sulla questione quando afferma che “gli uomini si sono inventati l’idolo del caso come una scusa per la propria mancanza di comprensione”. E se esaminiamo il significato che nel linguaggio comune siamo soliti attribuire al termine, possiamo trovare almeno tre aree semantiche diverse, per ognuna delle quali l’accusa di ignoranza di Democrito è calzante.

La prima è quella del caso come evento generico naturale che potrebbe essere anche di nessun valore, che non necessita sempre di spiegazione. Questo è il dominio di cui parla Democrito e di cui si occupa la scienza, il dominio degli eventi naturali sottoposti alla necessità delle leggi fisiche, ma talmente numerosi, articolati, complessi che ci appaiono spesso come turbolenza o evento imprevedibile per un nostro limite nella capacità di calcolarne le cause. Questa è la contingenza di cui parla Dante, che si specchia nella coscienza eterna. In questo senso il caso è la maschera della nostra ignoranza, o sta ad indicare che la necessità delle leggi fisiche non ci aiuta a conoscere il senso della vita umana. Se poi si volesse ridurre con una forzatura anche gli atti umani e l’intera creazione al solo determinismo delle leggi fisiche, questo certamente significherebbe negare libertà all’uomo e finalità alla creazione, ignorando qualsiasi senso trascendente nella vita.

La seconda area semantica è quella del caso come evento attribuibile a una azione umana, tuttavia involontaria, senza intenzionalità, compiuta distrattamente. Anche qui si vuole mascherare una necessità che la psicoanalisi ha descritto assai bene come atto mancato, determinato dall’inconscio, e quindi in definitiva da una volontà nascosta (nostra o di un demone interiore, se si preferisce) di cui ignoriamo la presenza.

Infine c’è l’evento significativo, importante ma inspiegabile o misterioso, la cosiddetta coincidenza fortuita. Qui il caso è un modo per negare la provvidenza, i segni che il Signore pone sulla nostra via per comprenderne il senso, i messaggi sottili che, come i sogni, chiedono di essere interpretati, poiché altrimenti rimarrebbero come lettere non lette in un cassetto. Anche in quest’ultimo senso il caso non esiste, è un idolo e una invenzione del pensiero, espediente dialettico utile solo a chi fugge o ignora la trascendenza.

https://www.youtube.com/watch?v=r4cn5trceIo
Il maestro Oogway nel film Kung Fu Panda (2008)