martedì 15 novembre 2016

Superumani

Non vorrei una vita diversa,
perché quella che ho
è davvero una figata.
-- Bebe Vio

“We're The Supethumans è il titolo del trailer pubblicato da Channel 4 per promuovere le Paraolimpiadi di Rio del 2016.



I protagonisti del filmato sono persone con disabilità che hanno sviluppato uno straordinario talento, artistico o sportivo. Ma l'efficacia del trailer è data da un messaggio implicito: la disabilità, riscattata grazie allo sviluppo di competenze e abilità straordinarie, è presentata come successo iperbolico, come emblema di una cultura del superamento del limite. Ho la tentazione di chiamare questa cultura del superamento “la religione del mio tempo”.

Sebbene essa non affermi di essere una religione, non è prudente crederle. Le sue miracolose promesse sono stranamente simili a quelle in voga nel mediterraneo già duemila anni fa. Sfamare gli affamati, guarire gli ammalati, sconfiggere il dolore, finanche la morte.

https://youtu.be/IocLkk3aYlk

La differenza è il modo in cui il suo verbo prende forma, per farsi visibile: ingranaggi e circuiti, molecole e onde che pervadono la nostra vita, fino a impiantarsi come protesi nei nostri corpi. I suoi libri contengono formule, matematiche ma non meno magiche, che ne regolano i prodigi. L’intelligenza artificiale è annunciata come la tanto attesa incarnazione del logos, il suo farsi “figlio dell’uomo” per redimerlo, per renderlo finalmente libero da ogni bisogno, finalmente superumano, indistruttibile e tecnicamente perfetto, cioè a sua immagine e somiglianza.

Anche stavolta non ci è dato sapere se le promesse siano sogni dai quali tutti si svegliano prima dell’ultimo respiro. Certo è che i superumani, se osservati da vicino, si scoprono persone molto umane, la cui volontà di vivere con pienezza è solamente mossa da uno spirito più forte del comune, antico e profondo, che viene da lontano, come quello del piccolo Davide che impugna la fionda. Uno spirito che non ripone speranza nei dispositivi come idoli moderni, ma semplicemente li usa come giocattoli, per affermare la propria sovrabbondante, ancorché ferita, umanità.

Cristiani

Secondo alcuni il cristianesimo è fatto principalmente di tre componenti inseparabili: istituzione politico religiosa, pensiero teologico razionale, religiosità popolare. Ma se si trattasse solo di tre gusci, nei quali è stato racchiuso per secoli il frutto autentico dell’essere cristiani?

Visione della Croce, Sala di Costantino, Musei Vaticani
In effetti il cristianesimo da Costantino in poi si è inculturato non solo assimilando le forme della religiosità popolare, ma anche quelle del potere politico religioso dell’impero e della élite intellettuale che aveva abbracciato il razionalismo greco. La spiritualità cristiana ha vissuto per secoli incarnata in tutte e tre le forme descritte, ma anche talvolta opponendosi ad esse, quando tradivano il Vangelo.

Per questo si parla anche di una Chiesa Popolo di Dio, animata dallo Spirito Santo, distinta da quella secolare. Questa è la Chiesa che trasmette il Vangelo nella carne di chi lo vive quotidianamente, dentro e fuori le istituzioni, con o senza pensiero teologico, nelle forme della religiosità popolare o in quelle della esperienza mistica individuale.

Oggi la Chiesa istituzionale, politica e teologica, si trova in difficoltà perché il potere della tecnofinanza, diversamente da quello politico non ha più bisogno di lei per soggiogare le masse. Il denaro e i dispositivi tecnologici sono oggi molto più efficaci a questo scopo. Per questo le sue tre componenti si stanno separando, essendo venuta meno la forza esterna della politica che le rendeva fittiziamente coese.

Chi vive ancora autenticamente la spiritualità cristiana nella propria carne, stenta a sentirsi rappresentato da un clero spesso arretrato o screditato dalla società, ma vive con ancor più disagio questa modernità in cui non trova spazio il Vangelo.

Siamo perciò chiamati a cercare dimora nell’unica cosa che ci rimane: la purezza dell’annuncio evangelico. E questo è forse possibile tornando al cristianesimo delle origini, che doveva affrontare un mondo pagano come il nostro, senza il supporto del potere politico (l’istituzione) né quello delle élite intellettuali (la teologia), ma conquistando direttamente il cuore della religiosità popolare.

Si tende spesso a identificare il cristianesimo solo con la Chiesa dell’Impero Romano (d’oriente e d’occidente), dimenticando che il cristianesimo delle origini non era un fenomeno nato e diffusosi solo in seno ad un mondo ellenistico prettamente pagano. In verità il cristianesimo nacque e si diffuse anche, e forse in primis, nella numerosa popolazione ellenistica di fede ebraica. C’è stata infatti per alcuni secoli prima e dopo la nascita di Cristo una forte vocazione universalistica e inclusiva già nell’ebraismo, che ha fatto proseliti in tutto il mediterraneo preparando il terreno e favorendo involontariamente il cristianesimo, il quale si rivelò più accessibile e di facile adozione.

Sarebbe anche per questo un errore continuare a ignorare il contenuto ebraico di una spiritualità nata completamente in seno alla cultura ebraica e separatasi da essa realmente solo dopo alcuni secoli, per ragioni più politiche che spirituali. Il Vangelo è un racconto ebraico scritto in greco da alcuni ebrei ellenizzati o da ellenisti convertiti alla fede ebraica, ambientato in Galilea e Giudea, avente come protagonista un maestro e profeta della tradizione ebraica, riconosciuto da molti suoi seguaci ebrei come il messia tanto atteso e preannunciato dalle scritture ebraiche.

In questa narrazione il potere istituzionale romano e il pensiero razionale ellenistico appaiono solo come aspetti contingenti sullo sfondo del peculiare periodo storico in cui il trascendente ha scelto di incarnarsi. Anche la religiosità popolare dei gentili è assente.

Sono i cristiani ebrei delle origini che dovendo inculturare la loro fede nell’ellenismo scelsero la lingua greca e si confrontarono con la religiosità del popolo, l’istituzione politica e l’élite intellettuale del tempo. E vi riuscirono così bene che ad un certo punto l’Impero Romano (potenti, intellettuali e popolo) ne fu conquistato, e l’abbracciò per servirsene pragmaticamente secondo la sua tipica indole.

Oggi diventa sempre più difficile annunciare il Vangelo in un contesto secolarizzato: la cultura popolare è dominata da un neopaganesimo scettico; la spiritualità è guidata da esigenze personali; le istituzioni ecclesiali attraversano una crisi di credibilità oltre che di vocazioni; la politica le tiene in vita per servirsene solo come riserva di voti o capro espiatorio.

Non sarebbe meglio essere cristiani spogliandosi di ciò che non appartiene e non è mai appartenuto realmente a Yeshuha Notzri, il figlio dell’uomo, il nazareno? Essere cristiani senza profondi legami con la politica e il potere, senza bisogno delle istituzioni, con più leggerezza, non potrebbe essere forse più semplice e autentico? Non sarebbe più aderente al Vangelo?

Certamente ci vuole ancor più coraggio, ma questo è il prezzo, da sempre, per chi ha fame di Dio.

mercoledì 19 ottobre 2016

Poveri di spirito

“Beati i poveri di spirito”
Matteo (5, 3)

Questa è una di quelle espressioni che lascia il lettore con la sensazione di non aver capito fino in fondo: come se ci fosse qualcosa di più che ci sfugge. Le letture spesso si affannano a chiarire che per essere beati ci si debba fare poveri, ma che la povertà non sarebbe da intendere in senso materiale, bensì relativamente allo spirito, quindi si tratterebbe di un invito all'umiltà. Questa spiegazione non regge, per il semplice motivo che Gesù in tal caso avrebbe potuto dire semplicemente beati gli umili.

Il punto forse è che a volte non si vuole vedere ciò che è scomodo. L'uomo è da sempre attratto per lo più dal benessere materiale, quindi quando Gesù parla delle beatitudini subito l’ascoltatore si pone nell'ottica di capire cosa serve per ottenere la beatitudine, intesa come una condizione confortevole. Da qui nasce la perplessità: perché la povertà di spirito come condizione di felicità risulta un paradosso. Essere poveri, che lo si intenda spiritualmente o peggio materialmente (Luca 6,20), sembra chiaramente una disgrazia di cui è difficile sentirsi beatificati. Vale il comune detto popolare: se la ricchezza non fa la felicità, figuriamoci la miseria!

Esaminando poi il testo greco “οἱ πτωχοὶ τῶ πνεύματι” si trova che grammaticalmente il nome “poveri” (un aggettivo sostantivato) è seguito da un secondo nome “spirito” come dativo di relazione. In ebraico questa forma grammaticale si chiama “stato costrutto”: è l’equivalente delle nostre espressioni “rosso di capelli” o “alto di statura”. Solo che mentre in ebraico (che è una lingua prettamente grammaticale) si può usare con qualsiasi aggettivo o sostantivo, in italiano (che è una lingua più lessicale) non suona sempre bene. Perciò non diremmo mai che una persona è lunga di naso, ma che ha il naso lungo. Analogamente l’espressione “poveri di spirito” ci è familiare solo in quanto è una citazione evangelica, ma in italiano saremmo inclini a dire “poveri dal punto di vista spirituale” o anche “con lo spirito povero”.

Ora la povertà è molto semplicemente lo stato di bisogno, la carenza, cioè la fame. Quindi i poveri dal punto di vista dello spirito sono i bisognosi, i desiderosi, gli affamati di spirito (qui il dativo di relazione funziona bene anche in italiano), o “con lo spirito affamato”, cioè coloro che desiderano ardentemente l'esperienza spirituale dell'incontro con il trascendente, coloro ai quali la dimensione materiale sta stretta.

Peraltro una situazione materiale troppo confortevole, di agio o di ricchezza, può essere un grande freno ai traguardi spirituali, come viene rivelato nella parabola del giovane ricco (Marco 10:17-27). Essere poveri materialmente può invece aiutare a far germogliare quell’altra povertà, cioè la fame spirituale. Non è un caso se in ogni epoca e cultura la sofferenza, anche fisica, si è rivelata come un forte stimolo per le molteplici forme di evasione dai vincoli dell’esistenza: poetica, artistica, profetica, mistica. Poveri nello spirito sono dunque i cercatori del divino, i mistici, coloro che hanno fame di assoluto, fame di Dio.

Ora forse è più chiaro come l’invito di Gesù non sia ad una postura di umiltà da assumere con devozione, bensì al risveglio di un autentico e profondo bisogno di nutrimento interiore.

Beati quelli il cui spirito è affamato, perché vostro è il regno dei cieli!

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Veduta del lago di Galilea nei pressi di Cafarnao



giovedì 13 ottobre 2016

Pressurizzàti

 "Mi cliente no tiene prisa" 
Antoni Gaudì

Depressione indica il venir meno di una pressione. Ma quale è la natura di questa pressione psichica? Premere significa in prima istanza esercitare una forza su una superficie dall'esterno, quindi anche spingere a fare o a muoversi in una direzione non decisa dal soggetto. Subire una pressione dunque equivale anche ad essere manovrati: ne conseguirebbe che il depresso è malato in quanto non è più manovrato. Una suggestione etimologica può essere l’indizio di un fatto ontologico?

Un altro spunto, sempre di natura etimologica proviene dal fatto che mettere fretta si può dire anche con il termine pressare, che in centro Italia ha anche il sostantivo dialettale “pressa”, non per indicare il macchinario, bensì sinonimo appunto di fretta, proprio come l'equivalente spagnolo "prisa". In effetti il depresso è anche uno che non ha fretta. In un sistema economico produttivo che ci vuole competitivi, ingranaggi efficienti e scattanti, non avere fretta è certo un difetto da correggere, una malattia da curare.

Se la pressione invece viene dall'interno, come in un pneumatico, si può parlare ancor più propriamente di inflazione psichica. Il depresso in effetti non è un pallone gonfiato, non si crede importante, non è vanitoso né arrivista. E questo è un guaio perché in primo luogo non ha la motivazione necessaria ad essere competitivo ed efficiente, ma oltretutto non è nemmeno un consumatore facilmente manipolabile dai media perché non insegue febbrilmente un desiderio di autorealizzazione, non percepisce sé stesso come centro di attenzione cui dedicare ogni energia, su cui investire tempo e risorse.

Il depresso si lascia andare, oserei dire che forse si lascerebbe vivere se la società attorno non gli inculcasse con ogni mezzo che quel suo lasciarsi in pace, darsi tregua, mollare la presa, non è lasciarsi vivere, ma lasciarsi morire, perché l'unica vera vita degna di essere vissuta sarebbe solo quella pressurizzata.

Quindi poiché sfugge al sistema di produzione e consumo, il depresso va medicalizzato. Depressione e deflazione non a caso sono due termini anche economici, ed entrambi negativi, indicatori nefasti di una economia malata. Ma se il linguaggio medico e quello economico convergono, è forse urgente farsi domande, nutrire sospetti.


Sagrada Famìlia

giovedì 11 agosto 2016

Pregarsi

Da non credente pregare è una azione incomprensibile: veramente qualcuno ci ascolta? E se anche ascoltasse, farebbe ciò che chiediamo?

Ma da non credente il mio dubbio maggiore è proprio circa il gesto di chiedere. Davvero pregare è sinonimo di chiedere qualcosa a Dio?

Le prime tre invocazioni del Padre Nostro, la preghiera con cui il Maestro Yeshua ha insegnato come pregare ai suoi discepoli, non sono delle semplici richieste a Dio di compiere azioni in nostro favore.

“Sia santificato il tuo nome”. Questa è chiaramente una nostra azione nei suoi confronti, il contrario di una richiesta.

“Venga il tuo regno”. Certo, il suo regno non è di questo mondo (Gv 18,36), ma se il regno fosse un al di là completamente separato da noi, non potrebbe “venire”. il Maestro Yeshua dice invece che quel regno è in mezzo a noi (Lc 17,21). Non è quindi di una venuta collocata nel futuro, che avrebbe poco senso invocare poiché si tratterebbe solo di attendere, ma di un’apertura possibile nel qui e ora, dei nostri cuori, del nostro spirito. Anche qui si tratta di una nostra azione di accoglienza del regno, non di una azione che noi chiediamo sia fatta da Dio.

“Sia fatta la tua volontà”. Non è certo pensabile che Dio attenda la nostra invocazione per fare ciò che Lui vuole. Anche qui si invoca una nostra azione, che consiste nel fatto che siamo noi a dover compiere il suo volere.

Se le quattro invocazioni successive contengono delle chiare richieste di azioni di Dio nei nostri confronti, non è affatto esclusa la necessità di una nostra partecipazione attiva al loro adempimento. In almeno un caso la necessità di tale partecipazione è anche esplicita: "come noi li rimettiamo".

Nel pregare si tratta quindi di impegnarsi a fare un lavoro in primo luogo su sé stessi. Per questo può apparire sorprendente il fatto che in ebraico il verbo è riflessivo: הִתפַּלֵּל (‘itpalel) che viene tradotto con il nostro verbo “pregare”, ma che letteralmente sarebbe “pregarsi”.

Si può pensare a un lavoro di torsione e apertura: mettersi nella giusta posizione, indirizzarsi verso Dio, voltarsi, che è poi anche il significato del verbo riflessivo “convertirsi”.

Appare chiaro allora come tutto ciò non debba essere confuso con una attività di semplice cura di sé, che nel migliore dei casi vorrebbe essere un esercizio di cosiddetta “meditazione”. Poiché queste attività di meditazione, oggi molto di moda soprattutto nei contesti New Age, si rivelano spesso come pratiche solo cerebrali e assai poco spirituali.

Per contro nella preghiera cristiana come nello zazen è possibile rintracciare un tipo di pratica che porta l’intelletto a scendere nel profondo del nostro cuore (inteso come il centro della nostra essenza corporea, intellettuale e spirituale), con lo scopo di ri-orientarsi.


L'accostamento dello zazen alla preghiera cristiana può sembrare ardito, ma i punti di contatto sono più profondi di quanto ci si possa aspettare superficialmente. La recitazione del rosario, come un mantra, ha uno scopo molto chiaro a chi lo pratica seriamente o anche solo ha provato ad assistervi con sguardo non pregiudizievole. Una formula ripetuta all'infinito produce un effetto di svuotamento della mente molto efficace, che ci libera dai moti interiori dell’anima, dal giogo dei desideri, dalle pulsioni e dalle intenzioni che spingono ogni nostra azione nella quotidianità, nel bene come nel male. 

Questo effetto diventa chiaro se si comincia a pensare che la preghiera per funzionare debba diventare un gesto quasi involontario e naturale, senza sforzo né intenzione, come il respiro. Ma non significa che ciò sia facile da ottenere, tutt’altro. Perché il raggiungimento di questa innaturale naturalezza, come in ogni arte, coincide con il traguardo del percorso di perfezionamento spirituale dell’allievo. 

Questa idea della preghiera è in sintonia con ciò che da molti secoli fanno alcuni monaci ortodossi, detti Esicasti, ancora presenti ad esempio sul monte Athos. Essi praticano la “preghiera del cuore” o di Gesù, che consiste nel ripetere interiormente "Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me" senza interruzione, in modo da pregare incessantemente (Lc 18,1 e 21,36; 1Ts 5,17). 

Da alcuni anni mi sto sempre più convincendo che sia la centratura su sé stessi (i propri bisogni, l’autorealizzazione) la vera origine di gran parte dei mali che affliggono l’anima. E se la solitudine può essere considerata la via maestra per correggere un orientamento errato del proprio cuore, è anche vero che essa è un abisso pronto a inghiottire chi vi si avventura in modo sprovveduto. Forse è necessario attraversare il deserto della propria solitudine, almeno una volta nella vita, ma non certo per soggiornarvi a lungo, bensì solo per sconfiggere le tentazioni che dal nostro ego traggono continuamente linfa.

Non si può soggiornare nel deserto della solitudine troppo a lungo se non altro perché non ci si salva da soli. E ciò è vero nel duplice senso di questa frase. Abbiamo bisogno degli altri, del loro aiuto, del loro esempio, del loro incoraggiamento, dell'insegnamento di un maestro. Ma abbiamo anche bisogno di farci noi strumento di salvezza per gli altri. Solo spendendo bene la nostra vita, si schiude per noi la possibilità di dare ad essa il senso e la pienezza che soli possono redimerla.

Fudenji
Anche questa dimensione orizzontale, del legame con gli altri, è palpabile fisicamente nella recitazione del rosario tanto quanto nella pratica dello zazen. Ho avuto modo di apprendere qualcosa di questo aspetto grazie al monastero Fudenji guidato dall’abate Taiten Guareschi, un luogo molto accogliente e aperto al dialogo interreligioso. Ho scoperto come sia necessario durante lo zazen, nel dojo, mantenersi in sintonia con il gruppo di persone con cui si pratica. Questo è vero non solo quando si fa la meditazione in cammino detta kin-hin (che richiede un movimento dei corpi visibilmente sincronizzati), ma anche durante quella seduta, propriamente detta zazen, che solo apparentemente, per chi la vede dall’esterno senza averla mai praticata, sembra una attività individuale.

Pregarsi è quindi una attività che si sviluppa anche in orizzontale, con gli altri, per ottenere un effetto su sé stessi nella direzione verticale di apertura verso l'alto, per riposizionarsi e dirigersi verso la sorgente di tutto, l'anima del mondo, Dio.

Per riassumere questo percorso si potrebbe dire che è necessario liberarsi dalla dipendenza (l’Egitto) e attraversare l'indipendenza (il deserto) per assaporare la pienezza della interdipendenza (la Terra Promessa). Come l’embrione che nel grembo materno secondo alcuni ripercorre gli stadi dell’evoluzione delle varie specie, così ogni figlio di Abramo è chiamato a ripercorrere, nella propria vita individuale, la storia di Israele.

E questa relazione tra il percorso individuale e quello collettivo, vissuta nei geni come nello spirito, si esprime forse nel modo più compiuto con l’attività della preghiera, dove la ricerca della perfezione individuale entra in risonanza con il cammino spirituale della comunità.

giovedì 26 maggio 2016

Il corpo e la macchina

Source: tattooeasily.com
Il tatuaggio è una pratica che presuppone una relazione ben precisa con il proprio corpo. Il corpo infatti può essere visto come involucro, abito, oggetto, strumento espressivo, status symbol. Estremizzando questa posizione, non sei più il tuo corpo, ma lo abiti e lo manipoli. Non a caso la pratica del tatuaggio viene anche assimilata al piercing tra le tante espressioni della Body Modification, un movimento culturale che esiste ormai da decenni.

Nella Body Modification si manifesta anche una certa nostalgia tribale per un passato lontano, il desiderio di recuperare il primitivismo. In modo analogo ma quasi speculare si posiziona invece il movimento intellettuale del Transumanismo, una filosofia futurista che tende a modificare il corpo (e la mente) dell’uomo grazie all’uso della tecnologia, per potenziarlo e superarne i limiti. Alcuni avventurosi arrivano così a impiantarsi circuiti elettronici nella carne.

Vedere il proprio corpo come una tela su cui dipingere o un oggetto da manipolare, può sembrare una questione soggettiva, una legittima libertà che l’individuo moderno si arroga per disporre di sé come meglio crede. Tuttavia secondo la scienza un corpo vivente si distingue da un oggetto inanimato, per il fatto che la sua forma è endogena, viene cioè determinata dal suo interno. Per contro gli oggetti inanimati e gli artefatti sono plasmati da azioni esterne, umane o naturali. Qualsiasi azione di manipolazione dall'esterno del corpo presenta quindi oggettivamente i caratteri di una riduzione del vivente a un mero ente.

Un atto di trasformazione impressa dall'esterno implica un superamento e una manipolazione della forma che si configurano come una violenza. Si potrebbe dire in breve che si tratta di una violenza. Il che non vuol dire che la violenza sia sempre di segno negativo. Alcune sue espressioni sono infatti semplicemente necessarie perfino utili: come gli interventi chirurgici per la salute o tagliarsi i capelli e le unghie per adeguarsi a delle (futili) convenzioni sociali. Il punto delicato e soggettivo è dunque quando l'uso diventa abuso, e si è guidati non da costrizioni e consapevolezza bensì, talvolta, da velleità e incoscienza. Esistono soglie e limiti che è infatti necessario valicare con l'opportuna consapevolezza, mancando la quale si oltrepassa anche quel sottile confine tra l'uso e l'abuso, di sé come degli altri.

Seppure queste pratiche possano quindi apparire come una manipolazione violenta del corpo, va riconosciuto che talvolta si presentano nella luce incantevole delle opere d'arte, di modo che in questa tensione tra abuso e espressione si schiuda il fascino di una profonda provocazione.

Source: Akademie 
der Wissenschaften
Una provocazione che ha origini lontane, dato che si può risalire almeno a La Mettrie, che con la sua idea dell’uomo-macchina sembra aver influenzato in modo significativo il pensiero moderno reificante. Di fatto anche la scienza medica attuale si basa sul principio che il corpo umano sia del tutto analogo a una macchina da riparare, su cui intervenire dall’esterno manipolandone i meccanismi con i farmaci o con la chirurgia.

Un approccio, radicalmente diverso dal precedente, è quello invece della naturopatia contemporanea, che vede il corpo come una pianta, parte della natura intesa come un grande organismo, quindi qualcosa da custodire con una cura non invasiva, bensì basata su un equilibrio nell’alimentazione e nell’interazione con i fattori ambientali, dove si ha la consapevolezza che alterando un fattore, tutti gli altri ne rimangono influenzati.

La cosa curiosa è che un anno dopo aver scritto “L’homme machine”, La Mettrie scrisse un secondo trattato intitolato “L’homme plante”, forse anche lui (come accade a volte a chi si è tatuato) ebbe un ripensamento sulla sua lettura riduzionista dell'essere umano.

sabato 14 maggio 2016

Il caso non esiste




“La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;

necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende”.

Paradiso, XVII, 34-39.

Sono solito affermare che “il caso non esiste”, per cui un amico ha portato recentemente la mia attenzione su questi versi in cui Dante contrappone la contingenza alla necessità. Vi si afferma che la natura casuale delle cose mutevoli e corruttibili non contrasta con la prescienza divina di tutto ciò che ancora deve accadere, in quanto sono presenti alla coscienza eterna come in un rispecchiamento. Essendo la coscienza divina eterna, il futuro e il passato sono entrambi presenti in essa “contemporaneamente” (ad essere più esatti, per essa non hanno senso, tutto è presente), e quindi la contrapposizione tra caso e necessità perde di significato.
Dante non difende il caso contro la necessità, bensì li avversa entrambi in quanto toglierebbero libertà all’uomo, finalità alla creazione e senso trascendente alla vita. E infatti scrive (Inferno, Canto IV vv 136) di «Democrito, che 'l mondo a caso pone», mostrando in questo verso un chiaro accento critico anche verso il caso.

http://www.foliamagazine.it/un-viaggio-infernale-lincontro-con-gli-spiriti-magni/
Il castello degli “spiriti magni” dove si trova Democrito, nel IV canto dell’Inferno.Miniatura tratta dalla ‘Divina Commedia di Alfonso d’Aragona’ (XV secolo), British Library, Londra.



Invero il pensiero di Democrito è ben lontano dal porre il caso a fondamento del mondo, essendo egli il padre del determinismo materialista antico (da cui trae origine anche quello scientifico moderno). Lo stesso Democrito ci illumina sulla questione quando afferma che “gli uomini si sono inventati l’idolo del caso come una scusa per la propria mancanza di comprensione”. E se esaminiamo il significato che nel linguaggio comune siamo soliti attribuire al termine, possiamo trovare almeno tre aree semantiche diverse, per ognuna delle quali l’accusa di ignoranza di Democrito è calzante.

La prima è quella del caso come evento generico naturale che potrebbe essere anche di nessun valore, che non necessita sempre di spiegazione. Questo è il dominio di cui parla Democrito e di cui si occupa la scienza, il dominio degli eventi naturali sottoposti alla necessità delle leggi fisiche, ma talmente numerosi, articolati, complessi che ci appaiono spesso come turbolenza o evento imprevedibile per un nostro limite nella capacità di calcolarne le cause. Questa è la contingenza di cui parla Dante, che si specchia nella coscienza eterna. In questo senso il caso è la maschera della nostra ignoranza, o sta ad indicare che la necessità delle leggi fisiche non ci aiuta a conoscere il senso della vita umana. Se poi si volesse ridurre con una forzatura anche gli atti umani e l’intera creazione al solo determinismo delle leggi fisiche, questo certamente significherebbe negare libertà all’uomo e finalità alla creazione, ignorando qualsiasi senso trascendente nella vita.

La seconda area semantica è quella del caso come evento attribuibile a una azione umana, tuttavia involontaria, senza intenzionalità, compiuta distrattamente. Anche qui si vuole mascherare una necessità che la psicoanalisi ha descritto assai bene come atto mancato, determinato dall’inconscio, e quindi in definitiva da una volontà nascosta (nostra o di un demone interiore, se si preferisce) di cui ignoriamo la presenza.

Infine c’è l’evento significativo, importante ma inspiegabile o misterioso, la cosiddetta coincidenza fortuita. Qui il caso è un modo per negare la provvidenza, i segni che il Signore pone sulla nostra via per comprenderne il senso, i messaggi sottili che, come i sogni, chiedono di essere interpretati, poiché altrimenti rimarrebbero come lettere non lette in un cassetto. Anche in quest’ultimo senso il caso non esiste, è un idolo e una invenzione del pensiero, espediente dialettico utile solo a chi fugge o ignora la trascendenza.

https://www.youtube.com/watch?v=r4cn5trceIo
Il maestro Oogway nel film Kung Fu Panda (2008)

domenica 17 aprile 2016

Un bicchiere

Sembra esserci un legame sotterraneo tra le varie dipendenze, per cui taluni sostengono che non se ne può guarire: al più se ne sostituisce una con un'altra. Mi è tornato in mente questo pensiero vedendo la foto scattata da un’amica in un Bar di Bologna. E nel riflettervi mi ha assalito come una visione, con una prospettiva più vasta.

Poesia di Vincenzo Costantino Cinaski
Ho come la sensazione che tutti debbano aver sperimentato talvolta, fin da piccoli, un senso di straniamento, la sensazione che in questa vita ci sia qualcosa di sbagliato. Ad un certo punto però sorge il dubbio che semplicemente si viva in modo innaturale: l'uomo forse ha costruito un sistema di vita, la cosiddetta civiltà, che è profondamente lontano dalla condizione d'origine. E sembra esserlo in moltissimi aspetti: a partire dai più elementari come il tempo, il ritmo di vita, i luoghi e gli spazi, il cibo. Perciò forse il nostro corpo, il nostro istinto animale , se ne accorgono e ce lo rimproverano.

Si può poi discutere se esista un impulso contro natura che spinge l'uomo ad una vita innaturale come sintomo di una malattia, evidenza di un destino della specie umana nefasto, che come un cancro del pianeta porterà alla distruzione e alla ascesa futura forse di altre forme di vita. Oppure se l'uomo abbia in sé l'anelito al superamento della natura, che lo potrebbe portare grazie alla tecno-scienza ad un futuro transumano. Oppure ancora se l'uomo abbia in sé una scintilla del divino che lo spinge all'antica trascendenza spirituale.

Ma qualunque siano le cause e i destini, rimane il fatto che l'uomo sembra soffrire questo suo essere a metà strada, questo suo aver debordato dal naturale, superandolo e travalicandolo, senza però aver ancora completato il tragitto, senza riuscire a trovare dimora e sentirsi a proprio agio, scoprendosi ramingo e inquieto, sempre in cerca di una meta confusa, un approdo lontano, oltre l'orizzonte.

Mi è apparsa come una rivelazione: su questa condizione si fonda il disagio che ci affligge fin da giovani e si protrae, sopito in modo più o meno latente, negli adulti, rassegnati con ironia o malinconia. E tutte le forme di sballo, di evasione, di dipendenza, di nevrosi, tutto il repertorio dei disturbi che l'umanità manifesta in modo variopinto, allora forse non sarebbero altro che un carnevale perenne, un disperato tentativo di sfuggire a quel senso di disagio del sentirsi umano o meglio, come ebbe a dire il filosofo di Roken, “troppo umano”.

domenica 10 aprile 2016

Una lettera sacra

Plutarco scrive in un dialogo intitolato “L’E di Delfi” (Dialoghi delfici, Adelphi 1983) che Apollo ama suscitare e proporre i dubbi dell’intelletto agli uomini che possiedono un’indole filosofica, risvegliando nelle loro anime la passione per la verità. E soggiunge: “Ciò appare in moltissimi casi, ma in particolare a proposito del carattere sacro della lettera E”.

http://www.adelphi.it/libro/9788845905346
La mia curiosità cristiana per l’ebraismo probabilmente mi conduce talvolta a vedere o cercare tracce di esso anche dove non può esservi in alcun modo. Mi trattengo quindi dal fare parallelismi strampalati, che pure ad un lettore ignorante e superficiale come me vengono subito in mente leggendo questo dialogo: tra il metodo dialettico e quello midrashico, tra il pitagorismo e la cabala, tra il dio unico affermato infine nel testo di Plutarco e quello di Abramo.

Nel dialogo citato ad un certo punto si dice anche: “Poiché il principio della filosofia sta nell’indagine, e quello dell’indagine sta nello stupore e nel dubbio, è probabile che pressoché tutte le questioni riguardanti il dio siano state avvolte di enigmi”. Ed è proprio in questo stesso stupore e dubbio che mi sono ritrovato leggendovi del carattere sacro della lettera E.

Mi sono ricordato infatti di quanto scrive il linguista Joel Hoffman (“In the Beginning: A Short History of the Hebrew Language”, 2006) circa il passo di Genesi 17 “Non ti chiamerai più Abram (אַבְרָם) ma ti chiamerai Abraham (אַבְרָהָם)”. Hoffman non è interessato alla plausibilità della storia, l’esistenza o meno di un Dio e di una persona chiamata Abramo, tra cui sia stata stipulata una alleanza. Hoffman è un linguista e si pone solo una domanda di storia della lingua ebraica: “perché venne usata una He per contrassegnare l’iniziazione nella cultura Ebraica?”. La He compare due volte nel tetragramma ineffabile.

Non è da annoverare tra “le fantasie esposte il giorno prima da un ospite caldeo” (per citare un’altra frase dal dialogo delfico) il fatto che l’alfabeto greco sia mutuato da quello protosemitico e che la lettera E (epsilon) dell’alfabeto greco derivi dalla lettera ה (He). Certo, il pensiero neopagano di oggi direbbe che è solamente un caso. Ma, per chi vive ancora nello Spirito, il caso non esiste.

mercoledì 17 febbraio 2016

Il corpo e il marmo



Questa immagine è inquietante. Nonostante le clausole legali che quella persona possa aver letto e sottoscritto. Si tratta di un corpo umano trattato con la tecnica della plastinazione, esposto alla mostra itinerante Body Worlds.

La questione mi ha fatto riflettere sul tema dell'arte e del corpo e mi sono tornate in mente le sculture di Michelangelo.


Ho trovato un testo (I Prigioni o Schiavi di Michelangelo all'Accademia) che tratta quasi lo stesso tema: "Ogni blocco mostra una solida muscolatura delle braccia e delle gambe abbozzati in modo dinamico e potente, traccia concreta della profonda passione che Michelangelo nutriva per l’anatomia umana. La conoscenza minuziosa dei dettagli era infatti stata affinata grazie alla possibilità di dissezionare cadaveri presso i frati agostiniani di Firenze negli anni ’90 del Quattrocento."

“C’è un senso di tensione, di movimento impresso dall’accentuata torsione: questa lotta esprime in Michelangelo una sorta di analogia simbolica fra la figura che tenta di fuoriuscire dal marmo e lo spirito che cerca di liberarsi dalla carne per anelare a Dio.”


Nei corpi plastilinati di Body Worlds c’è una tensione diversa, come meccanica, priva di vita. Questo è ciò che li rende inquietanti ai miei occhi. È sorprendente che Michelangelo abbia potuto mettere tanta vita nel marmo osservando corpi morti come quelli che si vedono in quella mostra. Forse è come se lui frugasse nei cadaveri cercando la vita, mentre lo sguardo secolarizzato vede questi corpi solo come macchine. Il processo con cui lui scolpiva presupponeva al contrario una forma immanente seppure nascosta. La statua per Michelangelo era già presente nella pietra, il suo lavoro consisteva nel togliere ciò che le impediva di venire alla luce.

Questa capacità di vedere nella materia una forma invisibile, se così si può dire, rivela la cifra della trascendenza, differenzia lo sguardo spirituale da quello scientifico.