venerdì 14 marzo 2014

Il sogno di una cosa

Sono stato folgorato da una tua citazione (in quella serata sul Menabò industriale): IL SOGNO DI UNA COSA. Ti sarei molto grato se tu mi trascrivessi la frase di Marx – o l'intera pagina – da cui hai tratto la citazione, e me la mandassi, da mettere come epigrafe al libro.
Pier Paolo Pasolini a Franco Fortini, gennaio 1962
La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che l’uomo lascia che il mondo divenga la sua coscienza interna, che l’uomo si svegli dal sogno su se stesso, che si renda chiare le proprie stesse azioni. Ogni nostro fine non può consistere in altro – come nel caso di Feuerbach riguardo alla religione – che ogni domanda religiosa e politica venga tradotta in forma umana autocosciente.
Il nostro motto deve dunque essere: riforma della coscienza non attraverso dogmi, ma attraverso l’analisi della coscienza mistica, non chiara a se stessa, si presenti in forma religiosa o politica. Si vedrà allora che da tempo il mondo custodisce il sogno di una cosa, del quale gli manca solo di prendere coscienza, per possederla veramente.
Si dimostrerà che non si tratta di tirare una linea retta tra passato e futuro, bensì di portare a compimento i pensieri del passato. Si vedrà in ultimo che l’umanità non inizia un nuovo lavoro, ma porta a termine con coscienza il proprio antico lavoro.
Karl Marx ad Arnold Ruge, settembre 1843

La prima volta che lessi la frase di Marx fu nella citazione che ne fece Pasolini. Ero poco più che adolescente. Rileggendo Pasolini anni dopo ebbi la curiosità di risalire alla versione originale di Marx e fui molto colpito dal fatto che Pasolini l’avesse troncata, omettendo anche l’aggettivo “mistica” in relazione alla coscienza. Gli perdonai l’omissione pensando al contesto culturale di quegli anni. Ma al contempo mi illuminò enormemente su quanto del pensiero antropologico e spirituale di Marx viene sistematicamente omesso.

Era proprio la coscenza “mistica” di Pasolini (esondante e in contrasto con le anguste visioni dell’ortodossia) che da giovane mi interessava, che mi faceva cercare nei suoi libri la voce di un maestro che mi indicasse una via (Dō). Una coscienza mistica che in me doveva poi maturare fino al punto in cui è nata, anni dopo, l’esigenza di “riandare” alla “poesia della tradizione”, per usare parole di una sua poesia (Transumanar e organizzar, 1971).

Non è facile definire cosa sia stato e sia per me questo “riandare”. Partendo dal modo in cui Pasolini usa questo termine mi viene oggi da pensare alla radice ebraica ש.ו.ב (shuv) che significa tornare (o ripetere). Da questa radice viene anche il termine תשובה (teshuva) che viene tradotto con “pentimento” perdendo così il senso di un “tornare (a Dio)” insito nella radice. Infatti mentre il termine pentimento può suonare come un cambiamento puntuale del proprio stato d’animo interiore, il tornare è un movimento fisico, un percorso articolato lungo la via (הלכה, Halakah), che solo come risultato finale produce il raggiungimento di un traguardo spirituale: diventare צדיק (Tzadiq), cioè giusto, e diventarlo ancor più intensamente di chi lo è stato invece fin dal principio, senza mai smarrirsi.

Il mio riandare alla poesia della tradizione in questi anni mi ha avvicinato infatti (finalmente) alle radici ebraiche della cultura occidentale cristiana, che costituiscono la nostra principale tradizione spirituale. Poiché “spiritualmente siamo tutti semiti” (Achille Ratti, settembre 1938).

E questo va detto nonostante i preziosi sforzi di Jung di resuscitare una tradizione attraverso lo studio dell’alchimia e delle sue forme e pratiche trasmutative, che fosse in sintonia con l’anima dell’occidente. Poiché l’oblio delle proprie radici spirituali è la cifra destinale di questa nostra civiltà. Qualunque forma di spiritualità viene oggi di fatto rigettata (al di là di fugaci mode esteriori), poiché non è compatibile con l’idolatria dell’Uomo (e delle merci da lui prodotte e consumate ossessivamente), tanto quanto non lo era l’idolatria di Dio di cui ci si è faticosamente sbarazzati con l’illuminismo (e che da Marx in poi chiamiamo brutalmente religione).

Il fascino che agli occhi degli occidentali hanno il Buddhismo come il pensiero junghiano risiede quindi oggi principalmente nel fatto che non parlano di alcun Dio: un vuoto che ad uno sguardo superficiale li fa sembrarare non antagonisti delle idolatrie attuali. Infatti da molti sono visti come delle non-religioni, delle filosofie. Ma se si può anche erroneamente parlare di filosofia per Jung, è invece paradossale e comico farlo nel caso del Buddhismo.

Quindi per la terza volta nella mia vita mi sono imbattuto, alcuni giorni fa, in questo testo di Marx. Fausto Taiten Guareschi lo ha richiamato esplicitamente per dare il titolo a una celebrazione molto significativa nella storia del Monastero Fudenji: il trentennale della fondazione, nonché 33° memoriale e 100° anniversario della nascita di Taisen Deshimaru Roshi, primo abate e fondatore del Monastero.

Fudenji, 1 marzo 2014
Non mi ha sorpreso tale scelta conoscendo la particolare apertura alle molteplici connessioni tra lo Zen e il pensiero scientifico, filosofico e religioso dell’occidente, che da sempre caratterizza il maestro Taiten e il Monastero.

Mi ha sorpreso invece la comprensione diversa che oggi ho avuto di questo brano. L’essere tornato alla poesia della tradizione ebraica mi consente di leggere oggi in una luce molto speciale questa idea di progresso come “compimento di un antico lavoro”, che il giovame Marx venticinquenne descrive con una intuizione di una profondità impressionante.

Prima di tutto egli scrive che il compimento richiede una presa di coscienza “non attraverso dogmi”, ma con un percorso di chiarificazione interiore. Oggi leggerei questo pensiero come una dichiarazione di adozione del metodo ermeneutico. Il dogma è figlio dell’idolatria (non solo di Dio, ma di qualunque altra cosa), di una obbedienza cieca nella devozione, in cui spera di trovar rifugio chi è spaventato dalla libertà. La libertà dall’idolatria mette infatti l’uomo pericolosamente innanzi alla tentazione dell’arbitrio e del relativismo nichilisti: il “nulla è vero, tutto è permesso” di cui parla Nietzsche.

La risposta di ogni autentica tradizione spirituale è invece un percorso che non pretende mai di risolvere le contraddizioni in modo definitivo, fissando le risposte in dogmi o certezze rassicuranti, siano esse religiose o politiche (cioè laiche o ideologiche). Bensì le usa per lasciar scavare le domande in profondità nel nostro cuore in un continuo dialogo ermeneutico con le molteplici interpretazioni. Perché lo scopo è la crescita spirituale dell’allievo, il suo cammino evolutivo, non la devozione a precetti e a libri pietrificati.

Nella cerimonia della battaglia del Dharma cui ho avuto l’onore e il privilegio di assistere in occasione delle celebrazioni avvenute a Fudenji, Pierre Jiun Cloutier interpretava il ruolo del maestro interrogato dai discepoli con numerose domande. La scena era preparata minuziosamente su un copione, ma occasionalmente vi sono state delle improvvisazioni quasi impercettibili per chi non conosce la speciale liturgia. Liturgia e teatro in questo contesto si rivelano termini interscambiabili proprio in quanto la situazione mette in atto, ovvero mette in scena, un nodo archetipico profondissimo dell’esperienza umana.

Le domande e le risposte cui ho assistito sono difficili da ricondurre per me a un pensiero noto. Come i Kōan, avevano un sapore evocativo o mistico, come oracoli o versi poetici. La parola si dava in modo epifanico e poietico, con una modalità che volutamente sfugge a una comprensione come mero riconoscimento. La liturgia si dispiegava come una danza che non vuole narrare una storia o illustrare un concetto, bensì sedurci e aprire un varco nelle nostre certezze, lasciarci con una sete di domande che ci scavi nel cuore.

Aggiungo a questo punto, per completezza, che la parola תשובה (teshuva) in ebraico significa anche: risposta a una domanda, soluzione. Significato che in questo contesto non appare casuale, bensì foriero di ulteriori sottili implicazioni: penso al Satori cui si perviene cercando la risposta a un kōan, e all’esperienza cristiana della conversione, già messe in relazione da Alan W. Watts (Lo Zen, 1958).

Credo che lo studio della תורה (Torah) come la lectio del Vangelo (e forse si può dire lo stesso per gli altri testi sacri) dovrebbero sempre lasciarci in questo medesimo stato. Poiché è solo così che siamo adeguatamente stimolati a portare a compimento “i pensieri del passato”. Un compito cui non possiamo venire meno, poiché nel Talmud si dice che “Non hai la responsabilità di finire l’opera, ma neanche la libertà di sottrartene” (Mishnà Avot 2,16). Un compito che si traduce nell’appropriarsi di quei pensieri del passato, poiché come scrive Haim Fabrizio Cipriani “la Torà non è un libro, bensì il risultato dell’incontro fra questo testo bagnato di eternità e l’intelletto dell’essere umano che, per un breve momento, la fa sua” (Cammina davanti a me, 2010).

Questo processo è possibile grazie al discepolato, che secondo il Messia si attua “rimanendo nella parola” che è trasmessa dal maestro:
“Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. (Gv 8,31-32)
L’espressione "rimanete nella mia parola" mi tornava alla mente mentre assistevo alla liturgia della Battaglia del Dharma. Essa è al quanto inusuale e richiede almeno un tentativo di chiarificazione. Per cavarsi d’impaccio alcune traduzioni riportano “rimanete fedeli a” compiendo una illecita alterazione del senso. Il versetto parla infatti di un “rimanere in” che, ancor più stranamente, precede la conoscenza della verità (e la conseguente libertà).

Conoscenza della verità (chiarificazione della coscienza mistica) e libertà (da ogni forma di idolatria) sono collocate entrambe in un futuro non precisato, o meglio escatologico, poiché l’accoglimento di esse nella loro pienezza va oltre le nostre possibilità. Per questo anche a Pasolini forse suonarono temerarie le parole di Marx che scriveva “gli manca solo di prendere coscienza, per possederla veramente” (una prospettiva fortemente hegeliana), e le sostituì delicatamente con tre puntini di sospensione.

Il fatto che “rimanere nella parola” preceda la conoscenza della verità in questo brano del Vangelo, può essere compreso alla luce di un passo fondamentale della Torah: "Tutto ciò che il Signore ha detto, lo eseguiremo e lo ascolteremo" (Esodo 24,7). Paolo De Benedetti scrive infatti a proposito che "bisogna innanzitutto eseguire la Torà, perché il capire la Torà nasce come effetto dell'eseguirla" (Introduzione al giudaismo, 1999).

Rimanere nella parola non è quindi capire con la mente, ma stare dentro, abitare la parola come se essa fosse un luogo, uno spazio fisico in cui dimorare. Credo che ciò stia ad indicarci che la parola debba essere vissuta con il proprio corpo, messa in atto, incarnata. E il compimento del nostro cammino spirituale (Dō, Halakah) avviene come conseguenza di questa ortoprassi concreta, fisica: quando la parola (il Dharma, la Torah, “i pensieri del passato”, la poesia della tradizione) si fa carne nell’uomo.

Per quanto bizzarro e stravagante possa sembrare a molti, questo significa per me oggi “portare a termine l’antico lavoro” di cui parlava Marx.