venerdì 28 giugno 2013

Una bella pretesa

Essere ebrei significa da millenni leggere la Torah. Invece essere cristiani ha significato quasi sempre ignorare la Bibbia.

Poi è arrivato Lutero, e allora ignorare la Bibbia è rimasto un vanto dei cattolici, fino al concilio vaticano secondo.

Provando a leggere la Bibbia mi sono accorto presto che ogni sua traduzione è già una problematica e discutibile interpretazione.

Coltivo quindi la bella pretesa di riuscire un giorno a leggere in ebraico non solo la Tanàkh, ma anche il Nuovo Testamento.

Mi ci vorrà un sacco di tempo: come si dice a Roma "ci puoi morire di vecchiaia". Ma io non ho fretta, lo faccio per amore.

Queste pagine sono il mio taccuino di appunti, in un viaggio che è avventuroso e difficile. Perché è una duplice ricerca di senso: senso della parola e senso della vita.

Rendo pubbliche queste mie riflessioni e mi espongo al giudizio impietoso degli altri nella convinzione cristiana che questo mi corregga e mi aiuti.

E spero anche che possa incoraggiare altri, ignoranti avventurosi come me, a mettersi in cammino.

lunedì 24 giugno 2013

Sentire è di più che ascoltare

In ebraico esistono due verbi, lishmoa (לשמוע) e lehakshiv (להקשיב), che corrispondono all'italiano sentire e ascoltare, e all'inglese hear e listen. La differenza di senso risiede nell'attenzione, per cui è possibile sentire senza ascoltare ma non viceversa. Forse per questo in italiano (diversamente che in ebraico) diciamo proprio "ascolta!" per richiamare l'attenzione.

Perciò non suonerebbe bene tradurre "shemà Israel" con "senti Israele" (come gli inglesi che traducono "hear Israel"), seppure anche noi in modo colloquiale diciamo spesso "senti!" per richiamare l’attenzione di una persona.

Questa sottigliezza linguistica, forse solo esteriore e accidentale, potrebbe passare del tutto inosservata se non fosse che ne nasconde una seconda, più profonda e semantica.

Nel primo libro dei Re, Salomone chiede al Signore di dargli un “lev shemà” (לב שמע) [N.B.: questa mia interpretazione è errata, la lettura corretta è "lev shomè'a", vedi il commento di Doron a questo post]. Le bibbie italiane traducono solitamente con “un cuore intelligente” oppure “un cuore docile”. Questa incertezza tra due significati sostanzialmente piuttosto diversi ci rivela la presenza di un problema semantico correlato allo “shemà Israel”. La traduzione letterale sarebbe infatti in questo caso “un cuore con udito” (shemà è letteralmente udito, sostantivo del verbo lishmoa = udire) e quindi, cercando di tradurre il senso, si potrebbe ottenere al più “un cuore senziente”, mentre tradurre intelligente o docile suona quasi come una forzatura.

Si insinua qui però un'altra possibilità di lettura: e cioè che quando Salomone chiede un “lev shemà”, faccia riferimento a un “sentire con il corpo” che tutti conosciamo molto bene, che non è indirizzato tanto all’intelletto quanto al cuore, simile forse più al sentire il ritmo della musica, che richiede “orecchio”, affinché il cuore batta al ritmo della Parola del Signore. Il riferimento sarebbe quindi a una modalità del sentire che coinvolge i sentimenti, l’anima e lo spirito della persona, di modo che la Torah si faccia carne viva nel nostro corpo, e l’uomo viva "come danzando" in essa.