domenica 18 febbraio 2024

Biopolitica e clero

Questo mistero è grande
lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!
Ef 5,32

Paolo prende la relazione tra moglie e marito come modello cui deve ispirarsi la Chiesa-Comunità nella sua relazione con Cristo. Dopo qualche secolo il clero ha deciso invece che la relazione tra moglie e marito deve essere "normata" dalla Chiesa-Istituzione.

Dire che il matrimonio “è stato elevato da Cristo alla dignità di sacramento" (Codice di Diritto Canonico 1055 - §1) è anacronistico e falso. La parola sacramento non compare mai nel nuovo testamento in riferimento al matrimonio. Sarebbe meglio dire che Gesù ha riconosciuto nell'amore coniugale la grazia e il soffio dello Spirito, il mistero grande di cui poi parla Paolo.

Il termine latino sacramentum nella vulgata traduce sì il greco μυστήριον (mistèrion) della LXX, ma nel significato di mistero non in quello (del diritto romano antico) di pegno o giuramento. Infatti in Ef 5,32 la CEI traduce con mistero.

Il quotidiano Avvenire in data 14 febbraio 2024 riporta un articolo dal titolo: “Pastorale. «Siamo andati a convivere e ora preghiamo di più»”. Sottotitolo: “L'Ufficio Cei di pastorale familiare ha avviato una ricognizione delle proposte attive nelle diocesi per le coppie di conviventi e per le giovani coppie. L'analisi del teologo Francesco Pesce”.

Trovo imbarazzante che ci si preoccupi ancora di "regolamentare" la convivenza dei fidanzati, entrando nell'intimità e complessità delle relazioni di coppia con un approccio normativo, come al solito mascherato da intenti pastorali.

Scrivere "la varietà delle situazioni impedisce le chiusure troppo nette, ma anche la tolleranza generalizzata" implica che il clero si arroga il diritto di "chiudere" (l'accesso alla comunione) o "tollerare" (un verbo del biopotere), in base a ciò che fanno nell’intimità due persone che si amano.

Poi lo stesso clero si domanda stupito come mai le chiese sono vuote. Fino a che ragionerà con le categorie del diritto e della biopolitica invece che con quelle del Regno dei Cieli, continueremo ad allontanare anche quei pochi che si avvicinano per grazia dello Spirito.

 

“Ruth e Booz” di Louis Hersent, Commissionato da Luigi XVIII nel 1819

 

sabato 7 ottobre 2023

Venga il tuo Regno

Come ci si deve confrontare con il potere?

Bisogna assumerlo? Rovesciarlo? Tentare di riformarlo?

Samuele dice a Israele: perché volete un Re se avete già Adonai? 

Gesù dice ai suoi di non usare le armi, come gli zeloti, contro i soldati dell'impero, e poi davanti a Pilato: "Il mio Regno non è di questo mondo". 

Paolo di Tarso ci dice di stare "nel mondo" sapendo di non essere "del mondo".

Bisogna riuscire a mettersi "in gioco", contro il potere che opprime i deboli, senza stare "al gioco" del potere.

È ciò che Francesco d'Assisi ha tentato di fare con la rinuncia ad ogni proprietà. La sua altissima povertà collocava lui e i suoi fratelli al di là della legge, dove c'è solo gratuità e amore.

Qualsiasi progetto di presa del potere è destinato al fallimento. Chi prende il potere ne viene catturato, come chi cerca di possedere l'anello di Sauron.

Per questo Gesù ci insegna a pregare dicendo non "instauriamo il tuo Regno" bensì "venga il tuo Regno".

Pregare incessantemente è l'unica arma per sconfiggere il potere.

 

L'Anello di Sauron



domenica 24 settembre 2023

È così

Un’amica mi ha raccontato del suo viaggio in India. Le condizioni di vita in quel paese sono per noi impensabili e raccontarle non potrà mai rendere che in minima parte ciò che prova chi le vede con i propri occhi, le sente con il proprio naso, le tocca con le proprie mani. Una cosa però mi ha detto che mi ha colpito molto, perché appartiene all’interiorità più profonda. Quando in diverse occasioni chiedeva alle persone del posto, come mai succedeva quello che succedeva, la risposta era spesso la medesima, apodittica e lapidaria: “è così”.

Questo aneddoto, senza un apparente collegamento, mi ha fatto venire in mente il seguente brano di Borges: “Il carro tardivo sta lì, distanziato perpetuamente, ma quello stesso ritardo diventa la sua vittoria, come se l’aliena velocità fosse spaurita premura di schiavo, e il proprio indugio, possesso completo del tempo, quasi di eternità. Quel possesso del tempo è l’infinito capitale criollo, l’Unico. Possiamo esaltare l’indugio ad immobilità: possesso dello spazio”.

Allora mi sono ricordato di un giorno in cui ero a Roma con un collega e stavamo aspettando, davanti al Palazzo della Farnesina, un tale che doveva introdurci per un incontro di lavoro, ma era in ritardo. Aspettammo sotto il sole più di un’ora. Sono cresciuto a Roma fino all'età di tredici anni, e il mio collega è napoletano e ha vissuto a Roma per qualche decennio, perciò la cosa non ci stupì minimamente, né ci innervosì. Nel mentre però riflettei sul diverso modo di concepire il tempo a Roma rispetto a Milano e lo attribuii istintivamente al rapporto con il passato. Chi vive a Milano spesso ha lasciato dietro di sé, se non l'hanno fatto i genitori o i nonni, una terra natia con la sua storia. E chi non ha storia vive proiettato nel futuro, come accade negli USA. Mentre in una città in cui ogni pietra trasuda di storia millenaria, tutto è già successo, più volte, e può solo ripetersi. Per cui il futuro non ha nulla di nuovo con cui sorprenderci, e non viene alcuna voglia di corrergli incontro.

Ad un tratto tutto mi è divenuto chiaro. Ecco, quel modo di pensare il tempo che Borges ha mirabilmente descritto e che a Roma si respira in ogni piazza, credo sia lo stesso fatalismo atavico che fa dire agli indiani “è così”.

È come se un’intera città, o un’intera civiltà, sappia di aver vissuto già migliaia di vite, nelle quali tutto si è consumato, tutte le possibilità di gioia e di dolore, tutte le vittorie e le sconfitte, tutti gli archetipi del cuore umano sono stati rappresentati sul palcoscenico della vita, più e più volte. Alla fine, come nel racconto “l’immortale” di Borges, la sazietà si trasforma in atarassia, in olimpico distacco, per cui qualsiasi evento, qualsiasi condizione, appare eterna in quanto una delle tante figure che si alternano nell’eterno ritorno della giostra dell’universo.

Questa idea del tempo e dell’eternità, così laica in Borges, così anticristiana in Nietzsche, così esotica nell’India, così disincantata a Roma, mi sembra ineludibile quando cerco di capire cosa sia il tempo messianico, l’annuncio evangelico del Regno dei cieli e della vita eterna. Forse Agamben ne “Il tempo che resta” riesce a svelarlo, cimentandosi con la lettera ai Romani di Paolo di Tarso, arrivando ad affermare che “il tempo messianico si costituisce in figura stessa del tempo presente, di ogni presente”.

Mi ritrovo così a pensare, di tanto in tanto, che l’India sia di fatto un anticipo del futuro del resto del nostro pianeta: quando miliardi di persone saranno finalmente stanche di produrre e consumare compulsivamente, di inseguire fantasmi, ossessionate dal possesso, dal godimento e dalla soddisfazione dei bisogni. Sogno allora che prima alcuni, poi molti, poi tutti, rallentino, come quel tardivo carro criollo descritto da Borges, si prendano tempo come si fa nelle vie di Roma, fino a che alcuni si fermino del tutto, in contemplazione del sole o della luna, in ascolto del lento scorrere del tempo. 

Tutta l’umanità la smetterà a quel punto di progettare, ossessionata dal domani, inizierà a lasciarsi vivere come gli uccelli del cielo e come i gigli dei campi, gioendo di ogni piacere e di ogni dono quotidiano, ma accettando anche la povertà, la malattia e sorella morte senza più temerle, senza più cercare invano di sfuggirvi. Dicendo semplicemente: “è così”.

Mickey Rourke nel film Francesco (1989) di Liliana Cavani



giovedì 31 agosto 2023

Dormida

 La gente aveva fatto cerchio per vederlo ballare, come succede in quei tanghi che parlano di Laura, di María la basca, di donne così, come in quel famoso tango della bionda Mireya: «se formaba la rueda pa’ verla bailar».

 Allora l’inglese dice, vanitosamente — perché i cortes spettavano a lui, mentre la donna doveva indovinare l’intenzione e seguirlo nel movimento, ma senza che si notasse troppo —, dice: «Vayan abriendo cancha, señores, que la llevo dormida»

-- Jorges Luis Borges

Tra le forme stilistiche che mi fanno amare la scrittura di questo grande poeta, devo sicuramente annoverare anche il gusto per l’aneddotica. Il brano precedente, tratto dalle quattro conferenze da lui tenute nel 1965 e pubblicate postume (Il tango, Adelphi 2016), riassume in un brevissimo aneddoto l’essenza del tango amato da Borges, tutto eroico e per nulla patetico, espressione di pura sfacciataggine, felicità e coraggio.


Tommaso Scarano, curatore del volume, traduce in una nota per il lettore l’ultima frase: «Fate largo, signori, che me la porto via senza che neanche se ne accorga». E la sua traduzione è certamente la più opportuna, poiché molti lettori sono conoscitori e amanti di Borges, ma forse solo pochi praticano il tango, e in particolare quello detto milonguero, che si balla in un abbraccio stretto. 


Per quei pochi la traduzione migliore sarebbe questa: «Fate largo, signori, che me la porto via addormentata». Essi infatti sanno molto bene che se un uomo balla bene, la ballerina spesso chiude davvero gli occhi e si abbandona completamente in ascolto, sognante, proprio come se fosse addormentata.


Oggi nelle milonghe si vede spesso ballare un tango spettacolare fatto soprattutto per essere ammirati da chi lo guarda dal di fuori, dagli spettatori. Ma la spettacolarità dei passi rende assai difficile, se non impossibile, l’abbaraccio stretto del tango milonguero, con tutta quella relazione magica che ne consegue, per la coppia danzante.


All’uomo che balla milonguero interessa infatti più ciò che prova la ballerina, che quello che gli altri possono vedere da fuori. Se si osservano (e basta cercare un po’ su youtube) i vecchi maestri milongueri, si può notare con sorpresa che si muovono poco, fanno passi piccoli e semplici, mentre la ballerina disegna e adorna attorno a loro. Semplicemente non ballano tanto con i propri piedi, ma soprattutto con quelli di lei. E ciò che è meno spettacolare non è tuttavia meno difficile.


Se torniamo ora all’aneddoto di Borges, tenendo ben presente quanto detto, si può apprezzare forse ancor meglio la sottile sfacciataggine racchiusa nella frase che pronuncia il compadrito. E può anche sorprendere che l'essenza dello stile milonguero sia già presente, anche in quell’epoca così lontana, proprio alle origini del tango.


Questa curiosità potrebbe essere illuminata anche da un altro dettaglio sottile, nascosto tra le righe di questo aneddoto. Borges ci racconta qui, è vero, di un mondo maschile che ostenta coraggio, eroismo e violenza, che combatte felice come se andasse a una festa, che non ha nulla di quel registro patetico, languido e sentimentale, che si trova invece nelle parole cantate nei tanghi famosi degli anni seguenti. 


Però ci fa scoprire anche, con una delle sue magistrali pennellate, che quell’uomo così eroico e sfacciato era al contempo capace di un abbraccio dolce e sensuale, che incantava la sua compagna e la faceva sognare. Era cioè quel tipo d’uomo antico, i cui sentimenti più profondi e romantici non vengono ostentati a parole, ma offerti solo con pudore e discrezione, nella stretta intimità di un abbraccio.


 

giovedì 24 agosto 2023

Vite immaginarie

Tutti noi viviamo una vita plurima,
e questo ci è indispensabile
per continuare a vivere:
viviamo la nostra umile vita,
ma ne viviamo anche un’altra,
immaginaria.

Jorge Luis Borges, 1965


Borges si riferisce qui al compadrito, che “si vedeva un po’ come un gaucho”. Qualcuno potrebbe pensare che tale vita immaginaria sia una forma di compensazione della propria misera condizione. Invece credo che il poeta qui ci faccia notare di sfuggita qualcosa che appartiene a tutti, ma proprio tutti: anche a Giulio Cesare mentre scrive il De Bello Gallico; anche a Gesù di Nazareth mentre annuncia il Regno dei Cieli.

Un altro errore potrebbe essere quello di considerare la vita immaginaria come inautentica. Credo sia un errore per il semplice fatto che non esiste una vita non immaginaria. E se anche volessimo teorizzarne l'esistenza, non potremmo immaginarla, né descriverla e parlarne, senza che, facendo ciò, anch'essa diventasse una vita immaginaria.

Viviamo sempre in una narrazione che plasma e dà un senso alla nostra vita, una narrazione fatta di parole, prodotto della nostra immaginazione. La libertà si gioca tutta in questa possibilità di immaginare la nostra vita, di costruire un senso componendo in un mosaico le tessere degli eventi che ci accadono.


 


sabato 12 agosto 2023

Libertà e tradizione

Non pensate che io sia venuto
per abolire la legge o i profeti;
io sono venuto non per abolire
ma per portare a compimento.
Matteo 5,17



La tensione tra libertà e tradizione non è riconducibile alla sterile polemica tra antichi e moderni. La libertà è un movimento iscritto nel solco della tradizione, ne è la linfa vitale che continuamente la attualizza.

Così la tradizione è tradizione di una libertà originaria che viene tramandata dalle generazioni per poter restare viva, per rinascere ogni volta venendo reinterpretata, per continuare a esistere.

Chi non comprende ciò, difende la tradizione come un idolo, un dogma o un simulacro, soffocando la libertà. In buona compagnia di chi, per le stesse ragioni la disprezza.

In entrambi i casi sotto la maschera si intravede lo stesso identico odio per la libertà, la paura di essere liberi, il bisogno irrefrenabile dello spirito gregario che vuole essere altro da sé perché non sa accettarsi e amarsi, che vuole fuggire da sé e dimenticarsi di sé.

Castel di Tusa, 22 agosto 2020


Cristo davanti a Caifa, Giotto 1305
Cristo davanti a Caifa, Giotto 1305

domenica 16 luglio 2023

Pietre

 «Vedi queste grandi costruzioni?
Non rimarrà qui pietra su pietra,
che non sia distrutta»
Mc13;2

Ci sono momenti e luoghi in cui il Vangelo risuona particolarmente attuale, come se parlasse a noi, qui ed ora.

Ci troviamo ai margini di un impero che drena risorse verso il suo centro, che cerca di omologare il mondo imponendo uno stile di vita pagano, orientato a godere solo dei piaceri della vita, senza prospettive ultraterrene. 

La nostra chiesa cristiana si trova costretta a vivere all'interno di una cultura che svilisce così ogni suo simbolo, ogni suo valore, ogni suo riferimento celeste, una cultura di fatto profanatrice. 

Al punto che, a titolo di esempio, non si fa alcuno scrupolo nel trasformare i nostri luoghi di culto in eleganti ristoranti dove la cucina prende il posto dell'altare.

The Jane, Antwerp, Belgium
Il Vangelo era a quel tempo follia per gli ateniesi e lo è di nuovo oggi per le élite di Washington come di Bruxelles.

Ma a noi il Vangelo deve suonare attuale e profetico, come lo erano per Gesù i testi di Isaia.

Se del Tempio non rimarrà pietra su pietra, come potremo continuare a praticare il nostro culto e professare la nostra fede?

Gesù dice che dopo tre giorni il suo tempio verrà ricostruito, che la sua chiesa è fatta di pietre vive, quali  siamo noi, e dice a Simone che da quel momento lui si chiamerà Pietro perché la sua chiesa si fonda sulla pietra che lui incarna.

Il Vangelo ci dice oggi che se vogliamo trovare un modo di sopravvivere come chiesa, in questa epoca, dobbiamo rifondarci a partire dalle persone, nelle nostre comunità, che vivono il Vangelo nella quotidianità.

Quelle pietre vive che lo annunciano con il loro esempio, facendo gli operatori pastorali, spendendo una parte significativa del proprio tempo in una forma di vita che può dirsi autenticamente missionaria.

Coloro cioè che offrono il proprio corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come vero culto spirituale (Rm 12;1).

Le nostre chiese dovranno imparare a riconoscere queste persone, non solo al loro interno, per valorizzarle e trovare tramite esse una via di speranza e di salvezza. 

Di quelle chiese che non sapranno farlo, non rimarrà pietra su pietra.

Notre Dame, 2019